martedì 11 giugno 2013

IL LATO OSCURO DELLA POP-CULTURE: WALT DISNEY

 (Difficoltà: 4,2/5)

Daniel Adel — Walt DisneyLa critica alla cultura popolare in quanto tale non è solo artistocratica e snob: è concettualmente assurda. Cosa ci può essere di meglio, concettualmente, che una cultura che si rivolge al popolo, dopo che questo è stato per millenni relegato all'elemento naturale e irriflesso della condizione di sopravvivenza? Il concetto stesso di una cultura “popolare” è in sé rivoluzionario. Ciò a cui si dovrebbe rivolgere la critica è semmai l'intenzione dietro la cultura popolare: se questa assolva scopi partecipativi e divulgativi o se, al contrario, si instauri monodirezionalmente e serva gli scopi del consumo e dell'oppressione ideologica e “di casta”.

Devo dire che i film di Disney non mi hanno mai convinto, nemmeno quando, da bambino, nutrivo una passione onnivora per ogni tipo di cartone animato. Mi colpiva dei cartoni di Disney l'atmosfera melensa, il sentimentalismo artificioso, l'ottundimento quasi ipnotico che essi mi suscitavano, nonchè la loro semplicità al limite dello stupido. Più tardi, sarei stato in grado di meglio indagare i reali motivi di queste impressioni.
Cosa è possibile dire, dunque, dei film di animazione della Disney che hanno fatto la storia di tanta parte della cultura popolare? Si tratta veramente di semplice intrattenimento? La risposta, come vedremo, è no.


Un Pò di Storia

Per cominciare, qualche parola sul “lato oscuro” della personalità del fondatore. Chi era Walt Disney in realtà? Resoconti biografici lo dipingono come un uomo autoritario, arrogante, assertore del darwinismo sociale (cfr.), anticomunista fino al reazionismo, egoista ed egocentrico al punto da appropriarsi di idee altrui. Disney ebbe inoltre simpatie per il regime nazista: partecipò a meeting filo-nazisti e ammirò la regista Leni Riefenstahl, propagandista del regime, al punto da pensare di assumerla in azienda, non fosse che questo avrebbe danneggiato la sua reputazione (crf. articolo).
Molto anti-semitismo si respirava all'interno dell'azienda (ivi): in una prima edizione del film “I Tre Porcellini”, il lupo cercava a un certo punto di insinuarsi nella casa dei tre porcellini travestendosi da venditore ebreo, rappresentato con i tipici tratti dell'iconografia antisemita (barba lunga, naso adunco). Solo accese proteste di gruppi ebraici americani indussero Disney a modificare le sembianze del lupo.

Il Lupo Ebreo dei 3 Porcellini
Il Lupo alla Porta dei 3 Porcellini, prima e dopo.
L'anticomunismo sfegatato e l'anti-sindacalismo (da cui l'equiparazione disneyana fra “sindacalismo” e “comunismo”) di Disney non sono un mistero. Nel libro Walt Disney: Hollywood's Dark Prince, il biografo Marc Eliot dipinge il padre di Topolino come una spia dell'FBI nella lotta contro il comunismo a Hollywood. Certo è che Disney collaborò e fu delatore quando venne convocato dall'House Committee on Un-American Activities, organismo che si occupò di arginare e combattere la presenza di presunte personalità e istanze comuniste nel mondo cinematografico americano.
Vediamo ora i possibili layer nei quali è possibile scomporre analiticamente una critica a Disney e alla sua opera.


1) L'Aspetto Commerciale: Consumo della Cultura e Cultura del Consumo nei film di Disney

Al livello più superficiale, c'è ciò che salta più immediatamente all'occhio: i film d'animazione della Disney non tradiscono mai per un momento il loro obiettivo principale, che è quello del profitto. Se ci si fermasse nell'analisi a questa constatazione di base, si perverrebbe a un giudizio poco raffinato e incompleto, ma già caratterizzante: la Disney organizza il suo pubblico per target, utilizza a piene mani stereotipi per poi imporne a sua volta di propri, evade sistematicamente la responsabilità di illustrare la complessità del reale e dell'agire etico preferendovi rispettivamente il determinismo stretto del cliché cinematografico (il “lieto-fineueber alles) e il dogmatismo stereotipizzato del moralismo middle-class. In poche parole, cerca di massimizzare i guadagni organizzando l'offerta culturale secondo standard schietti e intransigenti in larga parte ereditati da un'ampia tradizione di letteratura di consumo. Il livello d'“arte” dell'opera di Disney si misura con la bilancia industriale.
Ma la superficialità di un giudizio che vede nei film di Disney semplici prodotti di consumo culturale (il "consumo della cultura") non può reggere a lungo, se si considera che i film di Disney sono, piuttosto e più in profondità, vettore di trasmissione di un principio: quello della "cultura del consumo".


2) L'Elemento Politico-Ideologico: i Film di Disney come "Propaganda" del Potere

I film di Disney non riconoscono zone grigie, ma solo una netta distinzione fra il bianco e il nero, tra il bene e il male. Ancora, il manicheismo nella letteratura e nel cinema non era già allora nulla di nuovo. Ma nei film di Disney c'è sempre quel tratto paternalistico che, aggiungendosi al manicheismo, aiuta a comporre la tipica ricetta del potere autoritario. La produzione disneyana è intrinsecamente fascista.
Ecco allora che la cinematografia disneyana come prodotto "puro" d'evasione svela già un nuovo livello di lettura. Cos'è infatti l'evasione senza il contraltare del lavoro, del sacrificio e della sofferenza? C'è dell'apparente schizofrenia in un prodotto che, pur così ostensibilmente votato all'evasione, richiama fortemente il suo contrario: non certo l'impegno (civico, sociale, solidale ecc.), ma il lavoro. E non il lavoro per se stessi, ma per il Capitale. Il lavoratore - sembrano dire le opere di Disney - deve smetterla di porsi domande sulla qualità delle sue condizioni di lavoro e sulla congruità della sua retribuzione. Il suo sacrificio dev'essere massimo e non deve conoscere tentennamenti o moìne. Il lavoratore deve rinunciare ad ambizioni salariali, per farsi bastare il "cameratismo aziendale" e l'orgoglio di far parte di "una famiglia" (Disney la pensava veramente così e lo manifestò nel 1941 in occasione di uno sciopero dei suoi studios - v. art. già citato ). Il lavoro è lo strumento di questo sacrificio. Per l'Industria e per il Paese, quindi per il Capitale. Fino alla conseguenza più estrema e al sacrificio massimo: la morte. Ecco quindi che il festoso “Andiam a lavorar!” dei Sette Nani che vanno a lavorare in miniera deve servire proprio a questo: mostrare al lavoratore che ci può (e deve) essere felicità anche nei lavori più umili, degradanti o pericolosi, ma anche mostrare al lavoratore-soldato che si può andare a morire sul campo di battaglia con il sorriso sulle labbra e la gioia nel cuore. E', questa, l'ultima frontiera del brainwashing: quella che sbaraglia gli ostacoli del diritto e della rivendicazione sociale e nel contempo fa superare la barriera dell'autoconservazione e il tabù della morte più stupida: quella in nome del proprio oppressore. I film di Disney, con il messaggio accomodante e truffaldino di cui si fanno portatori, ricordano le allegre canzoni militari - tutte le canzoni di guerra, si noti, hanno tono allegro - nella loro nascosta funzione di coadiuvante ideologico del massacro.
Come si può vedere in questo articolo, durante la II Guerra Mondiale più del 90% del personale Disney fu impiegato per la produzione di film di addestramento e propaganda per il Governo. Ancora una volta sorprende lo stridìo fra apologetica dell'evasione apparentemente pura sprigionata dai film di Disney e l'“impegno” determinato dal loro impiego nella propaganda politica.


3: Ideologia Spettacolare: l'Elemento del Disimpegno nei Film di Disney

L'esibito carattere di “evasione” dei film di Disney serve quindi a coprire un messaggio ideologico potente e al servizio di quello che si avviava a diventare, con la diffusione dei media di massa dal dopoguerra, lo “Spettacolare Integrato” (Debord, Commentari su "La Società dello Spettacolo", §IV).
Non è difficile avvertire nelle pellicole di Disney come un messaggio strisciante sotto la barriera del conscio, la voce del potere che rimbomba: “Rilassati, vivi con leggerezza, sii felice e spensierato, e divertiti, che alle cose serie pensiamo noi. Goditi lo spettacolo, la fantasmagoria della vita altrui, sempre perfettamente ricca, e lascia decidere a noi sulla realtà della tua vita, sul tuo destino.” E', questo, l'annuncio di un'epoca di disimpegno e irresponsabilità sociale che chiama a partecipazione tutte le persone comuni, in quanto spettatori inerti dello Spettacolo.
Il messaggio della propaganda spettacolare raggiunge il non-cittadino nella veglia, ma soprattutto nel sonno, che è il “sonno della ragione”. Le maniere affettatamente materne di Biancaneve e gli occhioni  dolci e vagamente lussuriosi di Bambi non sono solo un trucco sfacciato per avvicinare i bambini. Sono anche elementi di una strategia seduttiva e affabulatoria che non lesina mezzi, tra il volgare e lo smaccato, l'inautentico e l'ipocrita, il sentimentalismo pornografico - in ciò Disney precorre tanta pubblicità moderna. I film di Disney, con le loro sdolcinature da casa di appuntamenti e le musiche ipnotiche fatte di archi e cori femminili a ricreare atmosfere di sogno, la loro idiozia che diventa l'annebbiamento della ragione in chi li guarda, contribuiscono al sonno della civiltà e vi tramano come congiurati: essi abbassano le difese dello spettatore per inculcargli il diktat della subordinazione totale. Gli occhioni dolci di Bambi servono a educare l'uomo-spettatore alla remissività. Le produzioni di Disney sono, non a caso, l'equivalente industriale del propagandismo cinematografico nazista di una Riefenstahl, nella misura in cui insinuano il cavallo di Troia del messaggio autoritario nella dimora - il parallelismo con il lupo e i tre porcellini è qui calzante - di una coscienza già ammorbidita e soggiogata da una nuova libertà - quella dei consumi - che è pensata apposta perché essa non la possa gestire.
I film di Disney sono film indirizzati ai bambini, ma sono anche film progettati per operare la regressione dell'adulto allo stadio di un'eterna infanzia, dove egli può essere in balìa di forze superiori che decidono per lui, e alle quali gli si fa capire da subito che è bene sottomettersi. Il disimpegno che lo Spettacolo esige dallo spettatore coincide con l'impegno che lo Spettacolo profonde per tenerlo legato alle proprie catene.

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