domenica 4 gennaio 2015

I CONCETTI DI "ETA'" E "VECCHIAIA", TRA CONDIZIONAMENTO SOCIALE E AUTO-INGANNO

(Difficoltà: 3,7/5)  


Of all sad words of tongue or pen, the saddest are these: ‘It might have been.'”
—  John Greenleaf Whittier; Maud Muller - Pamphlet
                                                                                       

Una vignetta di Altan
Una delle discriminanti principali della nostra società è il fattore-età. Siamo classificati in base all'anagrafe forse più che per altre componenti della nostra carriera civile, più difficilmente quantificabili (reddito, studio, lavoro, esperienza di vita). Nel mondo del lavoro, persino il fattore-esperienza – peraltro autentico totem di ogni selezionatore – nulla può di fronte all'insorgere dei primi capelli grigi: in molte società, nella maggioranza dei casi perdere il lavoro a 35-40 significa, dal manager in giù, non ritrovarlo più. Anche sul piano individuale, l'età di mezzo (diciamo dai 40 anni fino alla pensione) è l'“età oscura”, un Medio Evo pieno di incognite. A nessuno sembra interessare che proprio quella fascia d'età sia il punto di congiunzione ideale di una freschezza mentale ancora presente e del vertice dell'esperienza di vita e di mansione.

Ma ponendo da parte l'aspetto strettamente sociologico, la questione socialmente totalizzante dell'età, declinata sul piano della percezione individuale, può e deve essere ridimensionata. Parlando della mia esperienza personale, un'inesauribile fonte di rammarico è per me la constatazione di quante occasioni (di crescita, di carriera, di affetti) ho buttato al vento nella convinzione che fosse per me ormai tardi, che “non avevo più l'età” per fare una certa cosa. La verità è però che l'età, aldilà dei condizionamenti sociali, è tanto una questione di biologia quanto lo è di auto-percezione.
Se ci rivolgiamo al piano biologico, l'età anagrafica si rivela per quello che è realmente: una convenzione sociale, un numero scolorito impresso sulla nostra carta d'identità. Ne consegue che il corpo di un cinquantenne che si cura può essere, sul piano biologico, una macchina più efficiente del corpo di un adolescente che ha indulto a troppi bagordi. Età biologica ed età anagrafica: fin qui nulla di nuovo, si potrà dire. Ma se coinvolgiamo l'aspetto della 'auto-percezione, cioè del modo in cui “pensiamo” la nostra età, allora questioni esistenziali si pongono, che possono portare a valorizzare la nostra esperienza di vita o, all'opposto, a farcela buttare alle ortiche. Il punto ideale è quello che s'incontra quando riconosciamo la realtà del tempo che passa, pagando così il dovuto tributo all'universale stato di cose, ma nello stesso tempo usiamo questa consapevolezza come sprone ulteriore per fare di più e meglio, animati da un'altra consapevolezza, ugualmente forte: quella che non è mai troppo tardi.

Se la percezione della nostra età deve essere condizionata dalla biologia, allora è bene che ciò avvenga nella direttrice delineata da una massima del tipo: “Non fare mai l'errore di sentirti vecchio. Piuttosto, pensa a un tempo, diciamo tra dieci anni, nel quale penserai a quanto eri giovane dieci anni prima.” Con ciò si vuole dire che il “sentirsi vecchi” è un inganno della coscienza, pesantemente condizionato dall'ambiente sociale e dal concetto di “età anagrafica”. Ma la società, a differenza di noi, ha bisogno, per questioni diciamo “amministrative” (leggasi: lavoro, assistenza e pensione) di stabilire un punto o fascia di inizio dell'età senile; l'individuo, al contrario, che giustamente non accetta di farsi classificare come numero o “entità anagrafica”, può e deve impedire che questo approccio costituisca ostacolo a un'ulteriore realizzazione di sé: la vita, nella sua ricchezza, non può ridursi ai condizionamenti di un espediente burocratico.
Ma anche l'“età biologica” ha elementi di pesante incertezza. Siccome, infatti, da un punto di vista esistenziale, gran parte del concetto di “senilità” - a differenza, per esempio, di quello di “maturità” - si rispecchia in quello di “morte”, nel senso che la “vecchiaia” è fatalmente percepita come percorso di avvicinamento alla morte, perchè ci si dovrebbe sentire “vecchi”, dal momento che non si può conoscere l'età della propria morte? Dopotutto, anche un “vecchio” di 70 anni potrebbe rivelarsi semplicemente una persona di “mezz'età” o semplicemente “matura”, se dovesse campare fino a 140 anni (fatto rarissimo, ma possibile). Allo stesso modo, un trentenne potrebbe essere già “vecchio”, se la natura ha deciso che per lui 40 anni di vita possono bastare. Se uno non sa quanto vivrà, non può sapere se è vecchio, maturo o giovane; e allora perchè dovrebbe guastarsi la vita nel pensiero di essere vecchio, e rifuggire così dalla possibilità di aprirsi a nuove e fresche esperienze, a reinventarsi, dietro il pretesto che per la tale o tal altra cosa “è ormai troppo tardi”? Se l'età anagrafica è un costrutto formale impostoci dalla società, l'età biologica (e mentale) è una menzogna che noi raccontiamo a noi stessi. E chi vive nella menzogna, muore nel rimpianto.

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