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La Divina Commedia non solo costituisce un’enciclopedia universale sul Medioevo, ma essa dà da riflettere come nessun altra opera su problematiche che saranno sempre moderne in quanto eternamente legate al pensare e agire umano.
Prendiamo la figura di Satana-Lucifero. La troviamo - come ovvio - al culmine del viaggio di Dante all’Inferno, cioè nell’ultimo canto della cantica, che è il XXXIV.
Notiamo innanzitutto che Dante dimostra di appartenere a un’epoca che, pur con tutti i suoi conosciuti problemi, aveva ancora una chiarezza morale sufficiente a permettere di tener ben distinti Bene e Male. L’uomo medievale - e Dante in particolare - aveva ben chiaro cosa costituiva Bene e cosa costituiva Male: di conseguenza, la sua scelta tra l’uno o l’altro era deliberata e consapevole.
Oggi questa chiarezza morale è in larga parte svanita. I responsabili sono sempre i soliti: la cultura popolare - o, piuttosto, la sua depravazione (il più caratteristico esempio: Hollywood per il cinema) - i mezzi di informazione e la propaganda politica hanno seminato dubbio morale, dispensato zone grigie, scambiato il nero con il bianco, ergendo ambiguamente a modelli positivi gangster o assassini di massa della peggior fatta, e portando all’estremo e pervertendo il topos del “ladro gentiluomo” che è possibile trovare nel romanzo d’appendice.
Sorprendentemente, Dante ha gran poco da dire su Lucifero. L'incontro con il re dell’Inferno, offerta nella Commedia, è la definizione stessa di “anticlimatico”. Non meraviglierebbe che qualcuno rimanesse deluso: dopotutto, la confusione morale che stiamo vivendo ci porta naturalmente a nutrire una più o meno inconfessabile ammirazione per la figura del diavolo e per ciò che essa rappresenta. Per alcuni - e qui è l’aspetto della propaganda politica ad agire - rappresenta la “ribellione all’autorità”, e quindi il coraggio e l’“attivismo” che guardano a una maggior libertà dai dogmi e dalle imposizioni: insomma a un mondo migliore.
Va da sé che la sensibilità di Dante e dell’uomo medievale non potrebbe essere più lontana da questa distorsione, e lo si vede dal tempo e dall’immaginario che egli dedica a Lucifero. Quindi, dopo aver vista presagita l’apparizione finale del “principe delle tenebre” in ogni demone dell’Inferno, lungo un funambolico crescendo che non aspettava altro che i fuochi d’artificio finali, la figura di Lucifero è tutta qui: un essere piangente impiantato nel centro della Terra all’altezza della vita dopo esser caduto dal cielo all’alba dei tempi ed aver creato con il suo “peso” la fossa infernale. Di lui ci viene solo detto che ha diverse paia d’ali di pipistrello e tre facce di diverso colore: quella centrale è rossa; quelle ai lati bianco-giallastra e nera. In ognuna di queste facce Lucifero “mastica” un dannato autore del peggior fra i peggiori peccati, quelli legati al tradimento. Nel viso centrale, quello rosso, c’è Giuda, traditore di Gesù e della Chiesa; nei visi laterali, quelli giallo/bianco e quello nero, ci sono Bruto e Cassio, assassini di Cesare e traditori dell'Impero (Romano).
Come caratteristico della sensibilità medievale, la simbologia è ricca, e nel caso di Dante di una coerenza invidiabile: le interpretazioni dei commentatori variano, ma la più sensata mi sembra quella secondo cui il viso rosso rappresenterebbe l’odio, il viso giallo l’impotenza, il viso nero l’ignoranza. Satana incarna quindi l’antitesi della Trinità: la potenza (che è di Dio) si converte nell’impotenza; l’Amore (che è del Figlio) diventa Odio (e infatti nella faccia rossa è presente Giuda); la Sapienza (che è dello Spirito Santo) diventa Ignoranza, manifesta nel colore nero (che è il colore dell’oscurità, dell’assenza di luce che espone a ciò che si crede di vedere ma che non è reale, alla superstizione e idolatria).
Ecco, uno dei più grandi insegnamenti che si possono ricavare dal canto in oggetto è che impotenza, odio e ignoranza sono le tre facce del Male, e ogni atto malvagio è il risultato di una qualche combinazione di questi tre elementi.
Si vede dunque,in conclusione, che non c’è nulla di lusinghiero nella rappresentazione dantesca di Lucifero. Certo c’è il senso di meraviglia (un altro tratto tipico dell'uomo medievale) nel vedere una creatura alta come un mulino creare venti gelidi con le sue ali, ma al di là di ciò Lucifero è solo nominalmente il “re dell’Inferno”; gli è piuttosto strumento silenzioso e impotente della giustizia divina, un essere meccanico ancor più che bestiale. Come per ogni demone dell’Inferno (da Caronte in giù) egli è lì per contribuire al disegno divino: re di un regno in cui egli è servo senza appello.
Ciò che si nota maggiormente è forse proprio quello che non appare: la sua mitica bellezza, ora svanita nell’abbrutimento estremo seguito alla ribellione a Dio.
E’ così che, al solo verso 67 e quindi appena a metà del canto, c’è il congedo di Dante da Lucifero, per il tramite delle seguenti parole di Virgilio (enfasi mia):
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto
Ciò che segue è Dante e Virgilio che si aggrappano alla pelliccia di Lucifero, usandolo come scala per passare dall’altra parte del centro della Terra, nel loro viaggio verso il monte Purgatorio.