venerdì 5 luglio 2013

LA "TAVOLA ROTONDA" DI ARTU' COME SIMBOLO DELLA LOTTA ALLA DISGREGAZIONE SOCIALE

(Difficoltà: 3,4/5)
Tavola Rotonda
E' capitato a tutti di uscire a cena con amici o persone e trovarsi forzati a parlare per tutta la serata con quelle meno interessanti, fino al punto da non poterne più e non vedere l'ora che finisca. Come può succedere questo? Semplice: si entra in coda al gruppo nel ristorante, e chi ci precede nella compagnia s'accaparra i posti migliori.
Partendo da una questione affatto elementare, è possibile ricavare degli elementi di natura storica, che possono dirigerci a un'approfondimento di alcune questioni assieme psico-sociali ed economiche.


Excursus Storico: La Leggenda di Re Artù e della Tavola Rotonda

Alcuni storici ritengono che, dietro l'architettura leggendaria che da sempre ne contraddistingue la narrazione, Re Artù sarebbe realmente esistito: si tratterebbe di Riotamo, Re dei Brettoni, nel V sec. impegnato a fianco dei Romani contro gli invasori barbari. Anche dell'esistenza della famosa fortezza di Camelot ci sarebbero indizi importanti. Per quanto si riferisce invece all'altrettanto famosa “Tavola Rotonda”, è probabile che si tratti di una leggenda integrale, rispondente però a un simbolismo preciso: in contrasto con il massiccio processo di gerarchizzazione politico-militare dei tempi successivi, si ritiene che nel primo Alto Medioevo (fine Impero Romano – anno 1000 circa) i nuclei politico-militari raccolti attorno a un capo o "re guerriero" fossero organizzati più in forma di confraternite, pervase da un certo egualitarismo e sostanzialmente libere da pressioni gerarchizzanti.
In particolare nelle occasioni conviviali, si era soliti riunirsi attorno a un focolare, quindi con quella disposizione circolare che non prevedeva un “capo-tavola”, come sarebbe invece stato in tempi successivi. Quest'usanza fu consacrata all'immaginario collettivo con la rappresentazione plastica di una “tavola rotonda” che però non rimanderebbe quindi a una realtà precisa bensì a un principio.


Esempio di Quotidianità: Il Sedersi al Tavolo del Ristorante

Perchè ho affrontato questo excursus storico? Ai giorni nostri, si è un po' perso il principio richiamato dalla “tavola rotonda”, e anche nelle occasioni di relax quali quelle conviviali, si tende a costituire posizioni di privilegio e a intraprendere tenzoni per l'acaparramento di posizioni "territoriali" favorevoli. L'esempio di una vita quotidiana pervertita dalle stesse logiche che animano la competizione economica e sociale non potrebbe essere più efficace che nella semplicità di un oggetto come la tavola, forse assieme al letto l'oggetto più intimo e più legato alla vita quotidiana e ai suoi rituali.
Quello che i membri di un gruppo (di amici, di lavoro ecc.) inscenano quando sono chiamati a scegliersi i posti attorno al tavolo di un ristorante, possiede i colori e le sfumature della lotta per la sopravvivenza. A seconda dell'importanza dell'evento, le conseguenze dell'essere sopravvanzati nella scelta dei posti migliori possono estendersi da una serata noiosa alla perdita di un'occasione di carriera.
L'aspetto curioso è che una sorta di pudore legato a doppio filo alla civilizzazione, impedisce di chiedere una cosa così semplice come uno scambio di posto. Ciò che la ragione fa percepire come una richiesta ridicola e triviale riveste invece molta importanza dal punto di vista della natura, che per l'uomo – animale sociale - vuol dire anche “socialità”. La prospettiva di venir percepiti come degli individui infantili ha la meglio sulla prospettiva di rovinarsi la serata sedendo a fianco di persone meno gradite all'interno del gruppo, o in una posizione poco centrale del tavolo, qual è il capo-tavola.
Il capo-tavola rappresenta infatti la posizione più svantaggiosa, perchè permette di poter parlare confortevolmente con solo due persone: quelle che siedono al nostro fianco. Il centro-tavola, al contrario, agevola la conversazione con un minimo di 5 persone: le due a fianco e le tre di fronte. Ciò aumenta le probabilità di trovare persone gradite e di trascorrere una serata lieta.
Proprio qui sta un'ironia della Storia: se il “capo-tavola” era motivo d'orgoglio e marchio di superiorità in un passato più o meno lontano, esso diventa nella nostra società – dove il principio dell'uguaglianza è ormai solo una predica demagogica - per la maggior parte dei casi un handicap.


La Determinante Economica: la Gestione dello Spazio

La questione che ho proposto all'attenzione riveste maggior importanza di quella che si è normalmente disposti a concedere (e ad ammettere). Sicuramente, apre a delle riflessioni su ciò che è diventata la società oggi, dove la divisione, l'antagonismo e la competizione sociale tengono banco anche ai livelli più elementari della vita, eludendo con sistematicità la “controcorrente” che gli si vorrebbe opporre: quella della civiltà e della ragione.
I ristoranti seguono dei criteri logistici che dal loro punto di vista sono perfettamente razionali: come indica la figura qui sotto, dei tavoli di forma quandrangolare permettono una migliore organizzazione dello spazio che non tavoli di forma circolare, che se uniti lascerebbero dello spazio vuoto e inutilizzato al centro. Tavoli quadrati risponderebbero alle stesse esigenze di quelli circolari (equidistanza dei partecipanti), ma con un limite di posti rispetto a quello rettangolare. Non è un caso quindi che la forma di tavolo più diffusa sia quella rettangolare, cioè quella che più di tutte, in ragione della sua lunghezza, accentua la formazione di sottogruppi all'interno del gruppo originario.

Possibilità di disposizione dei tavoli nel ristorante

La Determinante Psico-Sociale nelle Dinamiche di Disintegrazione del Gruppo

Ed è proprio la formazione di sottogruppi – una tipica categoria psico-sociologica – a registrare la dis-integrazione del gruppo originario nelle occasioni conviviali. E', ancora una volta, materia esperenziale comune: nell'impossibilità di conversare con membri dislocati lontani da sé, ci si limita a scambi dialogici con i membri siti a portata di voce, rimanendo il più delle volte completamente all'oscuro di ciò che avviene e di ciò che è discusso negli altri sottogruppi. Nella maggior parte dei casi, questi sottogruppi sono destinati a dissolversi con il concludersi della cena, per riorganizzarsi con diverse configurazioni ad una successiva occasione. Ma può anche capitare che si instauri lo stigma di una sotto-appartenenza (o "appartenenza al sotto-gruppo"), destinata a perpetuare una scissione di fatto dal gruppo originario. Il sottogruppo tenderà a riproporre quella disposizione attorno al tavolo che ne ha occasionato la formazione, e si precluderà un'approfondimento della conoscenza degli altri membri del gruppo originario, sulla scorta di un elemento identitario destinato a prendere sempre più forma.
Il gruppo originario può così continuare ad esistere, ma, data la virtuale incomunicabilità dei propri sottogruppi – che ratifica in forma di struttura l'incomunicabilità sperimentata nelle singole occasioni conviviali - esso si trova ridotto poco più di un vuoto simulacro, a un aggregato di più sotto-gruppi.


Conclusione

L'esempio del tavolo di ristorante è solo un aspetto quotidiano di un fenomeno sociale più ampio. Ma, proprio perchè vicinissimo a noi, è un esempio particolarmente illustrativo dell'interazione fra decisioni economiche e dinamiche proprie della psicologia collettiva e di massa. Come compresero i Situazionisti, sussiste una forza tendente a smembrare la società in un nugolo di sottogruppi autoreferenziali, a partire dalla quotidianità di ognuno di noi. La quotidianità è quindi assieme terreno di comprensione di questa realtà e teatro privilegiato della battaglia contro di essa. La "tavola rotonda" diventa allora il simbolo del recupero di un senso di socialità e di comunitarismo partecipativo volti a superare le tendenze divisive del nostro tempo.

Donna Sorridente

mercoledì 26 giugno 2013

LA QUERELA COME ATTO INTIMIDATORIO

(Difficoltà: 4,2/5)
La  querela può diventare uno strumento intimidatorio, e quindi antidemocratico, perchè può essere usata per inibire la libertà d'espressione e di denuncia.
La querela fa sì che la libertà di parola sia subordinata al livello di censo: i tempi della giustizia italiana e le alte parcelle degli avvocati costituiscono una combinazione micidiale per chi non goda di benestare economico. L'incertezza della pena si declina poi in una duplice forma a offuscare ulteriormente il quadro: chi mi dice che chi ha i soldi per tenere per anni a libro paga un avvocato non li abbia anche per comprarsi la sentenza? Non viviamo dopotutto in uno dei paesi più corrotti al mondo? E: ammesso che io abbia ragione e il giudice confermi, al terzo grado di giudizio – cioè dopo anni - , che i reati che ascrivevo al querelante sono reali, cosa rischia questi veramente rispetto a quello che rischio io, considerati i vari indulti, gli sconti di pena e il perdonismo di una legislazione penale fatta dai colletti bianchi per i colletti bianchi? 


La Legge Nasce per Tutelare i Deboli, Non i Forti

La legge è nata per i deboli, non per i forti. Per i forti già esistono le leggi di natura (dove all'ereditarietà dei tratti somatici nel regno umano si affianca l'eredità patrimoniale e di status sociale), che li privilegiano. Ne consegue che la legge non deve essere imparziale, bensì seguire la sua vocazione nel porsi a tutela della parte offesa. Resta inteso che il “debole” è colui che ha subito il torto in una specifica occasione, e quindi il concetto non definisce per principio e in partenza una condizione sociale o di censo.
I problemi strutturali del sistema giudiziario italiano – afferenti in pari tempo a questioni amministrative e legislative – implicano purtroppo la creazione di forti squilibri. Come impedire, quindi, che anche le querele per ingiuria o diffamazione non diventino espedienti intimidatorii in grado di interferire con la libertà di cronaca e di opinione?
Con la naturale premessa che le lentezze e le storture del nostro sistema giudiziario hanno una ragione d'essere nella gaglioffaggine della nostra classe dirigente, la principialità della Costituzione potrebbe forse offrire leva per insenature interpretative del codice e richiamare così concetti come la “verosimiglianza” del giudizio apparentemente lesivo, la fondatezza di questo in accadimenti precedenti ecc. A titolo di esempio, la querela a seguito di un'accusa giornalistica, anche qualora questa non fosse sorretta da prove decisive, dovrebbe essere rigettata in nome dei principi di libertà e di verità ricavabili dalla Costituzione. L'attribuzione di un fatto dovrebbe fungere da stimolo per gli organi di informazione e di giustizia per far luce su eventuali responsabilità, in ragione di un criterio di trasparenza perfettamente afferibile ai principi della libertà d'espressione e di parola.
La semplice constatazione di una pregiudiziale nell'inizio di una causa per diffamazione - alla luce per es. di un semplice criterio di verosimiglianza della dichiarazione presuntivamente lesiva - dovrebbe inibire l'avvio del procedimento, se non per accertare la veridicità delle attribuzioni e quindi il valore testimoniale delle attribuzioni emerse, decidendo così per il luogo a procedere ovvero per un obbligo di rettifica. Il giudice dovrà valutare già in sede preliminare la buona fede del querelato, cioè la sua intenzione o meno di ricercare la verità.
Per questioni minori quali scaramucce o insulti, spontanei ovvero poco o per nulla legati a fatti specifici, il giudice dovrebbe – come per altre situazioni simili – subordinare la questione a un criterio economico e di censo: se la parte lesa ritiene che la propria dignità in casi triviali le valga più delle spese legali, può chiedere e ottenere giudizio. Solo in caso di evidente disparità economica a vantaggio del querelato si dovranno disporre provvedimenti risarcitori e  il rimborso totale delle spese legali, qualora si riscontrasse l'infondatezza delle attribuzioni. E' il caso, per es., di un datore di lavoro che insulti un dipendente. Il pagamento delle proprie spese legali, per converso, dovrebbe essere sufficiente punizione per il querelato condannato/soccombente, quando questi ricopra un livello economico-sociale significativamente inferiore rispetto al querelante.
Una giustizia che si possa ritenere tale deve tener conto dei soprusi e storture generati da un consistente divario nei rapporti di forza.


Conclusione

In conclusione, la giungla delle denunce per diffamazione - strumento particolarmente in voga fra politici interessati a imbavagliare la stampa - potrebbe essere fatta uscire dallo “stato di natura” in cui versa – e in cui scade a strumento di sopraffazione del forte sul debole – rendendo il concetto “feudale” di “onore” (non a caso caro alla mafia) qualcosa di gregario rispetto ai principi civili e costituzionali della libertà, della verità e della trasparenza, gli unici in grado di decidere sulla fondatezza di certa onorabilità.  


ZUPPA DI ZOMBIE: "Anche gli Zombie Hanno un Cuore"

Anche gli Zombie Hanno un Cuore

lunedì 17 giugno 2013

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9987

(Difficoltà: 0,9/5)

 IL "ZUCCO", OVVERO L'ARROGANZA DELL'
"ESTEROFILIA" GIORNALISTICA

Il "Zucco" lui-meme
Se c'è una cosa che mi fa incazzare è il “giornalista inviato col ditino alzato”, cioè quel giornalista che risiede all'estero e che periodicamente, dalle poltrone dei talk-show o più comunemente in collegamento “etereo” da lidi dove la democrazia, lì sì, funziona a mille, ci versa il calice amaro della nostra inferiorità come Stato, come economia, come mentalità, come altezza media dal suolo e scelta di deodorante ecc., al cospetto del paese che lo ospita tra suite d'albergo e cene quotidiane in ristoranti, pagate spesso (si suppone più che volentieri) dal contribuente medio italiano. Questa figura è oggi rappresentata per ampi versi da Vittorio Zucconi, inviato “ammerigano” full-time (sembrerebbe), figlio di papà (il paparino Guglielmo fu pure giornalista-direttore – olè – e SEMBRA che il Vittorio sia il solito raccomandato, ma... suvvia, sempre a pensar male!).

Questo giornalista grassoccio, pelato e sudaticcio, arrogantello e saputello, dalle guanciotte rossicce e l'apparenza magnona e godereccia, ha fatto show di se stesso nella puntata di Piazza Pulita del 10/06/2013, che qui sotto ripropongo. Eccezionalmente, qui il nostro confezionatore di reportage dall'estero (ma più spesso di opinioni proprie che non interessano una ceppa a nessuno), calca (supponiamo sdegnato) il suolo italico e si materializza in persona nello studio in luogo, come d'uso, di concedersi madonnescamente da oltreoceano mercè collegamento esterno (con tanto di faccione in schermo da 500'' e audio ritardato e echeggiato à la papa G. Paolo II).
Invito il lettore a prestare particolare attenzione ai punti elencati sotto al video, dove la saccenza e arroganza di questo pluripremiato monstre del nostro giornalismo d'esportazione s'appalesa in tutta la sua virulenza.

  • A partire da 1:30:20, il nostro fa una implicita tirata-spot per la proposta di legge della Finocchiaro volta a far fuori i movimenti come il M5S dalle prossime elezioni politiche.
  • A partire da 1:39:15 il nostro non si vergogna di dire che è andato a mangiare a casa della piccola imprenditrice Nonino, presente in studio. Viene da chiedersi: a che titolo? E il famoso principio del distanziamento fra giornalismo e potere (politico e economico)? E se il Zucco va a cena a casa di una piccola imprenditrice, che fa con uno del calibro di Marchionne o Geronzi?
  • All'1:42:08, parla il Professore Becchi, vicino al M5S. Quando questi si incarta all'inizio di una frase, il Zucco lo prende per il culo: “Ma, ma, ma”.
  • A partire da 1:42:45, Zucconi si esibisce in uno sboccacciato sfogo contro Becchi e l'“assemblearismo”.Si ode ben distinta la parola "cazzo".
  • A partire da 2:03:30, il Zucco ancora dileggia Becchi, dicendogli: “Ma cammina, (và)” in risposta a una parola usata da questi.

E chi l'avrebbe detto che il nostro glorioso paese non esporta solo salsa di pomodoro, mozzarelle, caciotte e cavoli, bensì anche cospicui cervelli giornalistici? Ma soprattutto: perchè? Forse per somministrare alle nostre pantanose paludi provincialistiche periodiche folate di internazionalismo, attraverso il sano metodo dell'arroganza tesa a umiliare e a ricordarci che siamo tutti delle merde? O forse perchè, dopo attenta considerazione, è meglio che certi cervelli se ne stiano fuori dai... patrii confini? E ancora: ma c'è qualcosa di più provinciale dell' italiano "scugnizzo a New York" che, scambiando la grandezza dei grattacieli per la propria, si mette a guardare dall'alto verso il basso la terra che gli ha dato i natali?
La prossima volta (ma questa volta: veramente!) fateci caso.

Donna-Vampiro

martedì 11 giugno 2013

ZUPPA DI ZOMBIE: "Morte di Coppia"

Morte di Coppia

IL LATO OSCURO DELLA POP-CULTURE: WALT DISNEY

 (Difficoltà: 4,2/5)

Daniel Adel — Walt DisneyLa critica alla cultura popolare in quanto tale non è solo artistocratica e snob: è concettualmente assurda. Cosa ci può essere di meglio, concettualmente, che una cultura che si rivolge al popolo, dopo che questo è stato per millenni relegato all'elemento naturale e irriflesso della condizione di sopravvivenza? Il concetto stesso di una cultura “popolare” è in sé rivoluzionario. Ciò a cui si dovrebbe rivolgere la critica è semmai l'intenzione dietro la cultura popolare: se questa assolva scopi partecipativi e divulgativi o se, al contrario, si instauri monodirezionalmente e serva gli scopi del consumo e dell'oppressione ideologica e “di casta”.

sabato 8 giugno 2013

ARTE E CRITICA DELLA SOCIETA': UN RAPPORTO IMPOSSIBILE?

(Difficoltà: 4.1/5)

La Filosofia non Può Essere "Originale"

George Grosz: "Sonnenfinsternis" (1926), Heckscher Museum, New York
Iniziamo col dire che quando si parla di un filosofo, lo si definisce spesso “originale”. Ma l'aggettivo è quanto di più sbagliato: la filosofia è la capacità di leggere, di rispecchiare e spiegare i fondamenti della realtà, che sono già lì presenti da sempre (per la filosofia “sostanzialistica”) o nella contingenza storica (per gli “storicismi” quali quello marxiano, per il quale anche il capitalismo è una forma storica che ha un inizio e una fine). La filosofia non è arte, quindi si può parlare di acume e intelligenza del filosofo e della sua opera, non certo di “originalità”, perchè questa implica creatività e inventiva. Al limite, una filosofia potrebbe essere detta "originaria" in quanto meglio si aggancia alle origini della realtà o della condizione umana in senso ontologico o storico.
A voler trattare la questione con rigore, anche l'originalità dell'artista sarebbe immanente alla tecnica, cioè al “filtro” stilistico (pointillisme, surrealismo, cubismo ecc.), quindi alla superficie, essendone il contenuto - dalla critica sociale di un George Grosz al decadentismo di Klimt per arrivare all'“angoscia” di Munch - qualcosa di ricavato da un contesto storico o storico-esistenziale, contingente ma pur sempre vissuto e effettuale, o dall'universo immutabile delle pulsioni e dei desiderata umani.


Arte e Critica della Società: un Rapporto Impossibile?

Anche l'arte in un certo modo si sforza di riconoscere la realtà, ma non con l'obiettivo di spiegarla, bensì di esprimerla. Per questo, essa è costretta a modificare “creativamente” il suo stile a seconda delle emergenze portate alla luce dal nuovo spirito dell'epoca. Per esempio, a seguito di un periodo di crisi epocale quale quello del periodo che dalla seconda metà dell'800 portò alla Grande Guerra, era fatale che il linguaggio dell'artista si volgesse più decisamente all'espressività. La brutalità e l'irrazionalità della condizione umana erano state portate alla luce nel modo più brusco, confermando una consapevolezza che già fermentava da tempo nell'ambito filosofico e culturale (Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Bergson), e avrebbero imposto una “lettura” più essenziale e comprensiva della realtà, la ricerca di un minimo comune denominatore dell'agire umano e della natura che avrebbe smascherato il metodo realista come inadeguato. Se nell'arte antica e moderna l'atto empio poteva essere fermato nel tempo come fatto singolo, legato a un fatto storico o a una narrazione mitica, e il collegamento con una condizione universale era lasciata alla sua rilevanza storica o a una simbologia già tramandata (ad es. la “Cacciata dal Paradiso” di Masaccio illustra un fatto biblico che è perciò già di per sé portatore di una caratura simbolica e universale), ora esso diventa solo una singolarità nel violento magma della passionalità umana in sé o nella sua interazione con una storicità che la rivela per ciò che essa è veramente. Il risultato è che diventa inessenziale soffermarsi sul singolo atto, e bisogna invece adeguare il medium artistico nel senso di una più grande e decisiva generalizzazione. Non più il delitto, ma la passione che rende possibile il delitto; non più il fatto storico o umano, ma la condizione storica o umana. Non più il Realismo, ma l'Espressionismo (cioè la prima tendenza del nuovo corso avanguardistico dell'arte novecentesca).
Ecco allora che la parola “realtà” lasciata a se stessa non è materia né della filosofia né dell'arte in senso moderno: entrambe non hanno interesse per la realtà per come si manifesta, ma si pongono un problema della “verità della realtà”, della sua lettura e interpretazione. La via intrapresa dall'arte sarà quella dell'espressività, quella della filosofia la teoria e la spiegazione.


Arte e Critica della Società: un Rapporto Impossibile?

Tutto questo detto, l'arte contemporanea può possedere una carica socialmente critica, ma questa è lasciata alla suggestione e al potere evocativo dell'immagine. L'arte cioè “suggerisce”, non spiega, e quindi non consente, anche nelle sue forme più efficaci, una partecipazione consapevole e attiva dello spettatore, che rimane quindi un “astante”, un soggetto contemplativo, anche se nel senso più alto. E poco aggiunge l'indubbio assorbimento partecipativo del nuovo fruitore dell'arte, che è in grado di operare “letture” di stili divenuti complessi e di scorgere referenti tematici delle opere sempre più nascosti dietro lo stile: tutto si svolge all'interno del discorso artistico. E' quindi facile comprendere come l'arte d'Avanguardia abbandoni ben presto la critica della società, che non aveva mancato di incarnarsi in forma “diretta” in manifestazioni potenti (il già citato Grosz), per convogliare l'aspetto critico nell'ambito angusto del “sottosistema sociale artistico” (Peter Bürger), in forma di una polemica nei confronti dell'irregimentazione del discorso artistico nell'istituzione museale e in tutti i santuari della contemplazione borghese. Già solo in questa limitazione del suo abbraccio critico, già solo per il fatto cioè che l'arte dell'Avant-garde “settorializza” la sua critica, marchiandosi a fuoco con quel tipico contrassegno dell'organizzazione borghese della società che è la “divisione del lavoro”, il suo discorso si riduce a null'altro che a una diatriba interna al mondo borghese, e il riscontro nella sua impostazione di un certo retrogusto snobistico e elitario non è casuale: molta dell'arte dell'Avanguardia Storica, se non tutta, supera l'arte borghese non in direzione del popolo, ma in direzione di un'aristocraticità contenente già i germi della sconfitta a venire.


L'Arte Situazionista come Prima Autentica "Arte Critica”

Fu così che l'accostamento di un impianto teorico all'arte non potè andare aldilà dei “manifesti” introduttivi, come quello celebre di Breton. Solo i Situazionisti, corrente di nuova avanguardia artistica sorta negli anni'50, cercarono di implementare una reale integrazione fra teoria e prassi, cioè fra filosofia e critica della società e arte. L'arte viene pensata a partire dalla “teoria” - che è fondamentalmente la “teoria critica” della Scuola di Francoforte, cioè l'impiego delle categorie marxiane in una prospettiva interdisciplinare - e questa vede a sua volta nell'arte un imprescindibile correlato pratico. La società – questo il messaggio situazionista - non deve solo essere capita attraverso la teoria, ma anche trasformata attraverso l'arte; nel contempo, l'arte non può operare da sola, ma deve avvalersi di un impianto teorico che la guidi, pena l'autorelegarsi a “sottosistema sociale” e culturale nell'organizzazione borghese della società e quindi, sostanzialmente, l'esservi assimilata come feticcio dell'autocontemplazione borghese (diventato nel frattempo il consumismo delle immagini nello Spettacolo).
Invece, i dipinti di Grosz entrarono nei musei, e vi entrarono per essere contemplati e “goduti” dalla stessa borghesia egoista, lussuriosa e corrotta che essi raffigurano.

Tuffatrice Russa

giovedì 30 maggio 2013

ZUPPA DI ZOMBIE: "Zombie Nation"

Zombie Nation

IL GIORNALISMO PERMETTE UNA VERA CONOSCENZA? LA STRUTTURA "INEZIALE" DEL GIORNALISMO CONTEMPORANEO E IL SUO RAPPORTO CON LA CONOSCENZA STORICA

(Difficoltà: 4,1/5)

Marco TravaglioHo sempre pensato che il giornalismo stia alla Storia come l'acqua sta alla pietra su cui scivola via nei giorni di pioggia. Conoscenza giornalistica e conoscenza storica occupano ruoli sostanzialmente opposti. Questo perchè il giornalismo, un po' per sua natura un po' per intenzionalità maliziosa, sta lì apposta per confondere le acque attorno al senso stesso del fatto di cronaca, ivi incluso quello destinato potenzialmente a passare alla Storia. Certo è principalmente una questione di forma mentis: il giornalista non deve scrivere per un sapere abbastanza universale da meritare di essere tramandato, impiegato nelle scuole o citato nelle università. Gli interessi del giornalista sono più vicini a quello che intendiamo con la parola “curiosità”. Questo cronico interesse per la curiosità, il particolare sciocco, l'elemento scandalistico o l'inezia, si incrocia solo raramente con quello che viene chiamato “giornalismo d'inchiesta”. Ne consegue che quest'ultima forma di giornalismo (invero la più nobile), non è affatto rappresentativa del giornalismo in quanto tale, ed è più rara di quanto si pensi, se non schiettamente accidentale. Basti pensare a quante poche sono le volte in cui, come nello scandalo Watergate rivelato dai giornalisti del Washington Post Woodward e Bernstein, il fatto dietro la cronaca ha potuto assurgere alla nobiltà di evento storico. 


Giornalismo "d'Attualità" e Giornalismo "Storico": il Ruolo della Periodicità

La differenza fra la conoscenza storica e quella giornalistica sta tutta proprio nella difficoltà di definire una “conoscenza” giornalistica. I giornali “informano” veramente? Offrono spunti di educazione o di acculturamento? C'è da dubitarne. L'elemento decisivo per il giornalismo, se confrontato con la cronaca storica, è l'unità di tempo prescelta. Nel caso del giornalista, questa è decisa dalla periodicità del giornale o rivista sul quale scrive. Man mano che la periodicità aumenta (fino alla rivista semestrale o all'annuale), il livello di analisi, la pregnanza e significanza dell'argomento affrontato, e la raffinatezza nel modo di affrontarlo, aumentano e si migliorano. Così si va dagli articoli di aria fritta della Repubblica o del Corsera, che riprendono magari l'ennesima ri-conferma o ri-smentita di una ricerca scientifica (una delle più “in” è quella della dannosità/virtuosità del vino rosso), ai coraggiosi reportage di Fabrizio Gatti sull'Espresso, fino ad arrivare alle soglie fra giornalismo e Storia. Va detto a questo proposito che il giornalista di qualità - molto raro specialmente in Italia - è colui che, senza essere uno storico, coltiva una “memoria storica” più o meno diacronicamente accentuata, che può limitarsi a ricercare citazioni e riscontri in articoli o editoriali degli ultimi anni, oppure veri e propri parallelismi e indizi di un'eziologia storica, o entrambi. Nel primo caso si ha il Travaglio (a cui non fa difetto però naturalmente anche una solida conoscenza storica dell'Italia Repubblicana); nel secondo, caratteristicamente, giornalisti più vetusti (Montanelli, Cervi, Biagi). Il giornalista privato di memoria e conoscenza storiche, all'opposto, sarà nel migliore dei casi condannato a essere vittima del proprio tempo e del conformismo che questo detta. C'è infine il caso dei giornalisti prezzolati, che fanno categoria a sè in quanto "scrivani" del potere.


Inezia, Sensazionalismo e Gossip come Elementi Strutturali del Giornalismo Contemporaneo

Il giornalista prigioniero dell'hic et nunc, si è detto, contrapposto allo storico o ai (rarissimi) giornalisti disposti a ricercare corsi e ricorsi, cause ed effetti nel continuum storico, per addivenire a una comprensione più profonda dell'attualità. Del resto, a tutti può risultare chiara la difficoltà di riempire ogni giorno 50-60 pagine di un quotidiano. Ma con questo non si vuole sminuire le responsabilità della categoria: infatti non sta scritto nelle Tavole della Legge che i quotidiani debbano avere tutto quello spazio. Da quando i giornali sono usciti dal loro ruolo elettivo, cioè quello asciuttamente cronachistico, aumentando le rubriche e ricalcando così l'offerta dei settimanali, hanno sbracato verso il confine del gossip sensazionalistico e oltre, e questo ha contaminato di ritorno le rubriche più tradizionali come quella politica e quelle dell'Economia, della Cultura, dello Sport nonché, a strascico, gli editoriali degli “esperti”, che devono commentare come capita quello che capita. E' al fondo una questione di ristrettezze temporali, che però vanno a formare il calco di uno stigma mentale, come si diceva: innegabilmente, una cadenza settimanale di pubblicazione offre più tempo per la selezione, l'elaborazione e l'approfondimento della notizia, mentre i tempi per i quotidiani sono molto più stretti. Le stesse dimensioni raggiunte dai quotidiani sono quindi un chiaro indizio di un contenuto esteso artificialmente a mò di divagazioni, sparate, inezie, sollecitazioni pseudo-pornografiche, ricerche scientifiche confermate e poi smentite, scoop tirati per i capelli o puttanate più o meno elaborate. 


La Parola al Posto dell'Azione: Politica e Giornalismo Alleate nella Strategia dell'Immobilismo

Naturalmente, il terreno d'elezione della supercazzola evasivo-digressiva non può che essere la politica. La politica è in Italia da tempo immemorabile il terreno del detto-non detto, del detto ma non pensato, del pensato ma solo alluso, del pensato detto diversamente, del diversamente taciuto. Il parlamento italiano sta al Bundestag tedesco come il teatrino dei Sofisti sta alla Agorà ateniese. Posta di fronte a problemi concreti da risolvere, la politica è tutta un: "Dobbiamo trovarci attorno a un tavolo per valutare l'abbozzo di un'idea rivolta a un disegno strategico che porti a un abbozzo di intervento. La dialettica politica italiana è l'arte dell'elusione dell'impegno. E i giornalisti sono ben felici di offrire una sponda o una cassa di risonanza, da una redazione o studio televisivo all'altra, per queste manovre di ottundimento distrattivo dell'opinione pubblica. Il cicaleccio di politici inetti è in questo senso perfettamente complementare alla forma mentis “riempitiva” del giornalista medio, che è ossessionato dal “pezzo” da consegnare e dal countdown scandito dalle rotative di stampa. Un blaterare sempre uguale a se stesso snellisce e facilita il lavoro del giornalista, per il quale le parole reiterate all'infinito del politichese diventano una seconda natura, come il campionario degli "scenari" e delle "strategie" che le dichiarazioni dei politici evocano in loro ormai quasi automaticamente, e che l'interpretazione giornalistica infila nell'intercapedine fra il detto e il non detto.
Politica e giornalismo si associano insomma per dar vita all'autoreferenzialità assoluta: quella che si basa sulla parola vuota, sullo slogan politico, sul politichese stretto e largo, dove significante e significato vanno a spasso per direzioni contrapposte. Il "cortocircuito comunicativo" di cui ogni tanto si parla non è un discorso interno alla comunicazione, ma si riferisce al rapporto tra parola e azione, dove la parola non diventa mai azione se non per realizzare il proprio contrario, nel circolo infinito delle promesse disattese. Esso è il vuoto pneumatico che si crea fra parola e azione, a vantaggio dell'inerzia, dell'inazione e del nascondimento. Tutto questo mentre fuori dal Palazzo infuriano i prodromi di una guerra civile.


Walter Veltroni Padre Italiano dell'"Infotainment"?

In allegato a questo articolo, ci tocca parlare di Veltroni. Per quanto appaia strano che una personalità siffatta abbia potuto influire in qualsivoglia ambito della vita pubblica, va ammesso che la pratica del gadget inaugurata dal nostro sull'Unità nel corso dei '90, ha determinato uno sconquasso dell'idea stessa di giornalismo, relegando la notizia e il lavoro di giornalisti anche prestigiosi ad appendici accessorie. Da coadiuvante della vendita della testata, il gadget l'ha vampirizzata, sottraendo inesorabilmente valore giornalistico al mezzo e quindi, a cascata, serietà e pregnanza ai temi trattati. Il discorso va ben là di questo o del tal altro gadget, estendendosi all'idea di giornalismo e alla percezione della realtà ricavabile dalla sua produzione. Ogni tematica affrontata deve, al pari di un film, di un cd o di un pupazzetto da collezione, far “divertire”. Il cosiddetto Infotainment è giustificabile nella sezione dello sport o degli spettacoli; quando è invece invece la cronaca “seria” a subire la giustapposizione dell'affettazione melensa, della velleità letteraria, del particolare gustoso o morboso ecc., allora l'intero discorso si corrompe, come si corrompe il rapporto del lettore con la realtà, rapporto che è ancor oggi per ampi versi esclusiva di questo tipo di giornalismo.
Veltroni ha cioè fatto al giornalismo quello che ha fatto alla Sinistra italiana: l'ha demolito. Ma - va detto - allora come adesso egli ha fatto tutto con le migliori intenzioni. Perchè - si veda - Veltroni non è una persona cattiva e non è nemmeno un giornalista: è semplicemente un politico, in quanto tale inetto.

Cosa c'è Sotto?

sabato 25 maggio 2013

ZUPPA DI ZOMBIE: "Magraba Consolazione"

Magraba Consolazione

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9988

(Difficoltà: 2,1/5)

IL VOCABOLARIO DELLE CASTE: LA PAROLA "LUCIDITA'"
COME SPIA DELLA GERONTOCRAZIA ITALICA

Lucidità
Se c'è una cosa che mi fa incazzare, è la frase “con grande lucidità”. E', questa, una frase che si usa frequentemente nel mondo della politica della cultura e delle accademie, quando si vogliono tessere gli elogi di qualcosa che uno ha detto o fatto (qui un caratteristico esempio che tocca la giovane promessa della politica italiana Giorgio Napolitano). In realtà, lo spirito di cricca che impregna gli ambiti elitari della società italiana fa sì che queste attestazioni di merito siano nulla più che le solite ruffianate a “partita di giro” (un giorno io a te, domani tu a me) nei confronti delle quali il contesto specifico (la frase detta) è solo un pretesto.
Si noti poi a margine che esistono numerose varianti, se possibile ancora più grottesche: per esempio il “Magnifico” attribuito al Rettore delle università, o il “Chiarissimo” rivolto ai professori ordinari (e quale miglior complimento rispetto alle circonvoluzioni retoriche con le quali costoro mascherano in libri e conferenze da insondabile sapienza un'inconcludente dabbenaggine?)


 La Lucidità in Fondo al Tunnel

Ora, la frase o parola in oggetto (“con grande lucidità”, o “lucidissimo”, “lucidamente” ecc.), per quanto frequente e anzi proprio per questo, rischia di scivolare via nel turbinio quotidiano di frasi fatte, promesse vuote e inchini verbali che le personalità afferenti alle varie categorie professionali (ma in particolare quelle più esposte pubblicamente, come politica, cultura e giornalismo) si distribuiscono vicendevolmente in ogni dove e a ogni quando. Se però, discorso che vale in generale, si cerca di dare forma al fastidio istintivo che certe parole (come certe immagini o atti) ingenerano nel pubblico più critico, allora si può arrivare ad aggiungere importanti tasselli interpretativi sui modi operandi e cogitandi degli ecosistemi del privilegio sociale, che hanno nella politica, nella cultura (accademica e non) e nell'informazione le loro rappresentanze più caratteristiche e influenti.
Cosa evoca la parola “lucidità”, se presa in questo contesto? Semplicemente l'idea che una personalità, pur dovendo essere rincoglionita per raggiunti limiti di età, ha (sorpresa!) ancora il cervello che le funziona. E si cerca di compiacerla facendoglielo notare. All'aspetto della vuota e pretestuosa riverenza, si aggiunge quindi l'allusione involontaria (ma proprio per questa rivelatoria) alla gerontocrazia che risaputamente controlla in Italia i vertici della politica, della cultura, dell'informazione, della finanza e dell'impresa. E' notizia fresca, per esempio, che la Grande Recessione, ormai diventata dopo 6 anni un discorso a tre (Grecia, Spagna e Italia) fa nel Belpaese strage di giovani (che dovrebbero rappresentare il futuro e invece sono per quasi il 40% disoccupati), e gli unici che sembrano passarsela bene sono le cariatidi che monopolizzano trans-settorialmente gli strati dirigenti (e che nei decenni hanno ridotto il paese a una fogna a cielo aperto).


Il Decadentismo delle Cricche: un Esoterismo Pataccaro e "Lucidamente" Idiota

Naturalmente, un complimento che allude più o meno indirettamente alla stupidità è un complimento equivoco, e quindi frutto esso stesso di stupidità. Ma la Storia insegna che tanto più un potere riposa su basi fragili, tanto più è indotto non solo all'intolleranza e alla prepotenza, ma anche alla pompa, all'autocelebrazione e all'ermetica chiusura in un milieu ovattato, esclusivo, totalmente autoreferenziale, contrassegnato da insuperabili barriere di accesso e dove ci si scambia favori e parole dolci. E' in questo contesto che si elabora un codice culturale che si avvale spesso di una simbologia esoterica (le ridicole vesti che i professori indossano all'apertura dell'anno accademico, sorprendentemente simili alle toghe massoniche, sono solo un esempio), e sempre di un linguaggio talmente ricercato e fanfarone da diffondere un'atmosfera di catatonico ottundimento nell'utilizzatore di un'italiano medio.
Se è vero che la risata può valere come strumento della rivoluzione (la “pernacchia” di Totò o il detto “una risata vi seppellirà”), allora bisogna concludere che le elite del nostro paese fabbricano le munizioni per le stesse pistole che si vedono puntare alla testa. 
La prossima volta, fateci caso.

Buona Morte, cattiva immortalità