domenica 17 luglio 2016

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9975

 (Difficoltà: 3,2/5)

LA SOCIETA' CONTEMPORANEA: UNA QUESTIONE DI AUTOMATISMI

Viviamo in una società che ci chiede tempi di reazione fulminei
Vorrei mettere agli atti un episodio capitatomi recentemente. Mi trovavo alle poste per recapitare una lettera raccomandata di tipo 1. Entro, mi faccio dare il modulo, compilo e aspetto paziente il mio turno. L'ufficio è pieno di extra-comunitari, dal momento che esso sorge in un'area della mia città di particolare varietà etnica. Le uniche due impiegate allo sportello sembrano far di tutto per esasperare i numerosi clienti, che infatti iniziano a protestare, seppure con ironia: solo uno sportello è aperto alla volta, perché, per chissà quale problema, un cartello “sportello chiuso” si alterna all'uno e all'altro degli unici due sportelli accessibili. Il sospetto è che il direttore di filiale faccia fare un po' di back office alle impiegate. Una delle due impiegate, quella di cui dirò più avanti, batte i tasti con una lentezza che pare studiata: per chi fosse pratico di dattilografia, diciamo che fatica ad arrivare alle quindici parole al minuto, e non sto scherzando. Ma soprassediamo sulla proverbiale voglia di lavorare della fauna impiegatizia del pubblico impiego: non è questo il punto che voglio discutere qui.
A un certo punto, quando ancora c'erano davanti a me un uomo dell'Africa nera e una signora indiana, l'impiegata mi chiama allo sportello: vuole che passi davanti ai due. Io, per puro istinto, mi avvicino, ma nell'istante immediatamente successivo a quello della consegna del mio modulo raccomandata, inizio a rendermi conto che, nel saltare la fila, mi sono reso responsabile di una cosa che ho sempre odiato negli altri: la prevaricazione. Naturalmente, poiché per costituzione non mi considero superiore a chicchessia, in quel momento ho odiato me stesso proprio come avrei odiato una qualsiasi persona che avesse fatto quello che avevo fatto io.
Provo a reagire. Faccio presente all'impiegata che “c'era qualcuno prima di me”. L'impiegata, già nervosa e frustrata di suo, mi fa notare stizzita che mi ha chiamato perché sta terminando il tempo utile per inviare la raccomandata quella giornata stessa: qualche minuto ancora e la lettera sarebbe stata spedita solo il giorno successivo. Faccio presente che il fatto che si tratti di una raccomandata speciale di tipo 1 (cioè deputata in teoria a giungere a destinazione in sole 24 ore) non significa che io abbia tutta questa fretta: l'uso di quella tipologia di raccomandata è frutto di una richiesta tassativa fattami dal destinatario, e la data-limite è ancora avanti nel tempo. Sarebbe bastato, da parte sua, chiedere. Inoltre, se uno confidasse nel rispetto dei tempi da parte delle Poste Italiane per l'invio di raccomandate da cui può dipendere il proprio destino, dimostrerebbe di non aver capito nulla del disastro biblico che le privatizzazioni selvagge dei decenni addietro hanno significato per questo Paese proprio nel campo dei servizi più essenziali.
Ma è ormai troppo tardi, avevo perso il momento buono: a dispetto di una lentezza che era già stata osservata e motteggiata a più riprese tra i componenti della fila fino a qualche minuto prima, l'impiegata-bradipo già ha avviato il disbrigo della mia pratica-raccomandata. Mi scuso con le due persone che avevo seppur involontariamente prevaricato, e me ne esco. Per tutta la giornata, sono spinto a più riprese a riflessioni su un evento dall'apparenza così triviale.


Autoriflessione sull'accaduto

Cosa mi ha insegnato l'accaduto? Proviamo a stendere un paio di punti:
  1. viviamo in una società frenetica, dove c'è sempre meno tempo per correggere i propri errori, per rivedere i propri passi. Uno è spinto ad agire d'istinto, attraverso automatismi, e se non li ha sviluppati o sufficientemente allenati, rischia di rimanere scottato.
  2. La prima cosa da fare, quando si cade in episodi che ci segnano, e nei quali il nostro grado di responsabilità va elaborato e decifrato, è quello di fermarsi a riflettere: può darsi in effetti che la prima impressione di “averla fatta grossa” sia fallace, e che ci siamo comportati come meglio non avremmo potuto date le circostanze. In altri casi invece, quali il mio, la propria responsabilità è fin dall'inizio chiara, ma è comunque mitigata da una forma di provocazione, di istigazione.
    L'importante è non cadere nella trappola di usare l'attenuante come strumento di autoassoluzione. Il mio caso è ancora più subdolo, perché l'attenuante mi fu offerta dall'autorità: fu insomma, nel vero senso della parola, un'attenuante “autorevole”. Infatti, fu l'impiegata, l'unica all'occorrenza deputata a “dirigere il traffico”, a chiamarmi al suo sportello; e questo sarebbe bastato a molti per sentirsi deresponsabilizzati. Nel mio caso, tuttavia, la responsabilità poggia quasi interamente sulle mie spalle, poiché non avevo alcuna necessità che la mia raccomandata fosse spedita quel giorno stesso. Alla colpevole mancanza di giustificazione del trattamento privilegiato da parte dell'impiegata, avrei dovuto sopperire io con una richiesta di chiarimento. Ciò che mi è mancata è la presenza di spirito come parte di un compendio di automatismi che uno è chiamato a sviluppare nella pratica di una quotidianità sempre più caotica e sfrenata. Mi è mancata, nella fattispecie, la capacità di chiedere immediata spiegazione di una richiesta di contravvenire al principio del rispetto del prossimo, che io pur sento senza dubbio mio.
    Per ribadire il punto, occorre dunque farsi un esame di coscienza, capire ciò che non è andato, e cercare di farne tesoro per il futuro. E ciò vale anche e soprattutto per una persona come me poco avvezza ai tran tran di una vita quotidiana che ci vuole tutti commessi viaggiatori, costringendoci a barcamenarci fra pratiche, carte, bollette da pagare, attivazioni di pin, frequentazioni con estranei da cui si vuole qualcosa e a cui occorre dare qualcosa. L'intima consapevolezza delle proprie buone intenzioni, l'interiore coscienza che si è trattato di uno spiacevole equivoco, non può ammortizzare la delusione nello sguardo dell'extracomunitario: uno sguardo che comunica soprusi ancestrali di cui tutti noi Occidentali portiamo una parte di responsabilità. L'apparenza è qui sostanza, e lo è proprio perché la sostanza non appare: per la signora indiana e l'uomo dell'Africa Nera io sono, aldilà di ciò che io so di me e di tutte le scuse che ora non potrebbero non suonare ipocrite, solo l'ennesimo approfittatore.
  3. Occorre tolleranza e capacità di andare oltre la fenomenologia sociale; occorre saper distinguere per accordare, se si offrono spazi anche minimi, il beneficio del dubbio (e ciò vale anche per il tribunale della nostra coscienza). A chiunque può capitare di invadere la sfera di diritto altrui, senza per questo che occorra senz'altro pensare che l'abbia fatto apposta. Troppi sono i pensieri che affollano la mente di ciascuno di noi, pensieri e preoccupazioni moltiplicati per le molteplici sfere del vivere (la famiglia, il lavoro, il tempo libero), ognuna con i suoi specifici problemi. 

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