sabato 22 dicembre 2018

LA SINISTRA E IL "VITTIMISMO PROIETTIVO"


 (Difficoltà: 2,5/5)

Freaks
Non è un caso che la sinistra faccia proseliti soprattutto tra i giovani. Non ho sottomano delle statistiche, ma sono sicuro che se il regolamento elettorale si adeguasse al precipitoso calo del livello di maturità delle ultime generazioni giovanili e conferisse diritto di voto solo a partire dai 25 anni, la sinistra sarebbe ancora più irrilevante di quello che già non è. Certo la sinistra non è solo giovani: ci sono poi anche i nostalgici del mito progressista, eterni adolescenti che portano i segni del tempo che passa sulla testa piuttosto che dentro di essa; e ci sono quelli che sull’appartenenza alla sinistra c’hanno costruito una carriera politica, universitaria ecc., e che campano sul voto e sul sostegno delle due categorie precedenti.


Il Vero Impegno sta nell'Essere Artefici del Proprio Destino

Una chiara spia di questa immaturità è nella continua tendenza, da parte dei giovani della sinistra, a calcare il tasto del vittimismo, e alla generica indole piagnona di persone in cerca di capri espiatori per una vita giovane ma già carica di fallimenti personali. Chi ha avuto la fortuna di crescere oltre l’adolescenza, sa che ognuno di noi è artefice del proprio destino, e che l’accampare scuse esterne è una tattica dei perdenti nati. Certo ognuno di noi nasce diverso, e la natura o l’ambiente sociale non sono egalitari: essi danno ad alcuni tutto, ad altri nulla. Il lato positivo di chi non ha nulla è che ha tutto da ottenere, e quindi ha un potenziale di stimoli virtualmente infinito; il lato negativo di chi ha tutto è che non ha nulla in più da ottenere, se non forse un po’ di più di ciò che già ha, e quindi rischia l’apatia e il disorientamento esistenziale. Il primo soggetto può essere l’artefice del proprio destino; il secondo – si prenda l’esempio classico del figlio nel cui destino già sta scritto che deve succedere al padre nell’azienda o nello studio d’avvocato – ha il destino già deciso per lui.
Quindi il lato oggettivo – le condizioni ambientali - ha la sua importanza; ma ce l’ha anche il lato soggettivo, cioè la capacità di reagire a una condizione sfavorevole rimboccandosi le maniche.
Il giovane di sinistra vive una condizione particolare: egli è spesso un privilegiato (l’esempio offerto dai rampolli delle maggiori università americane tramutatisi in black bloc e fascisti di sinistra – che si fanno chiamare, ironicamente, “Antifa” - è lampante). Come fa quindi questa persona a giocare la carta del vittimismo, dal momento che egli si trova più spesso che no dalla parte dei privilegiati della società, dalla parte cioè di coloro che egli stesso definisce “sfruttatori dei deboli” (chimandosene ovviamente fuori)? A dire il vero, questa ambiguità si può un po’ applicare a tutta la storia della sinistra dalla Rivoluzione Francese in poi, essendo l’appartenenza a sinistra, nella sua essenza, un modo per esorcizzare il proprio essere borghese facendo finta di appoggiare le cause di un’umanità oppressa della quale non si sa e non si vuol sapere nulla. Simili individui non possono fare gli interessi degli operai, dei braccianti e degli immigrati, perché ciò mal si concilierebbe con gli interessi propri. Essi si creano allora immagini idealizzate e ideologizzate di questi gruppi sociali, immagini che sono completamente staccate dalla realtà. Tutto si muove sul piano della fantasmagoria, dell’ideologia, ed è per questo che l’“azione” di questi “attivisti” si esaurisce nei proclami vuoti, nel parolame più vacuo o nel manifestazionismo teppistico. 


"Vittimismo Proiettivo"

Veramente, come fanno questi giovani, cui paparino paga una retta retta universitaria annuale da 70,000 $, a reinventarsi “baluardi” delle categorie oppresse? Come detto, ci si muove sul piano della fantasmagoria, dell’apparenza. E ciò è da intendersi letteralmente: basta colorarsi i capelli, attaccarsi anelli al naso, ricoprirsi di tatuaggi, coprirsi la faccia con cappucci da terrorista dell’Isis e iniziare a spaccare vetrine o a malmenare studenti conservatori, e il gioco è fatto, qualcuno arriverà a odiarli o a disprezzarli e cercherà di assicurarli alla giustizia. Pensiamoci bene: anche il delinquente può, dal suo punto di vista, considerarsi un “perseguitato” dalla polizia (una "vittima" di essa) laddove tutti noi sappiamo che egli è al limite un “perseguito” dalla legge. Ma è proprio la più radicale illogicità a dettare le regole del gioco: il rapporto di causalità (e cioè ciò che uno fa prima che la gente cominci ad averlo in odio o la legge a perseguirlo) è l’agnello sacrificale di questo autoperpetuantesi rituale. Possiamo chiamare questo atteggiamento “vittimismo proiettivo”: ci si atteggia a vittime delle conseguenze del proprio essere carnefici. Il gioco vale, naturalmente, anche quando la violenza (almeno quella fisica) non ha luogo, o quando non si commettono reati: in questo caso, basta che uno si renda disprezzabile per la sua volgarità, per la sua intolleranza per punti di vista diversi dai suoi e per i suoi attacchi verbali, o che semplicemente tenda a escludersi dal consesso delle persone decenti agghindandosi o truccandosi come un “outsider”, e il gioco è fatto.
Chiunque, insomma, può atteggiarsi a vittima, procurandosi così delle scuse per la propria incapacità di ricercare un cammino fruttuoso e produttivo per la propria vita nella società, un qualcosa che inevitabilmente richiederà sacrifici e responsabilità: basta porsi fuori dalla società con atteggiamenti asociali, per agitare poi lo spettro della discriminazione nei propri confronti. Il gioco è così fatto, e il ragazzotto di buona famiglia può ora vantarsi di avere qualcosa in comune con i poveri, con gli sfruttati, con le minoranze etniche e sessuali: c’è qualcuno che lo odia, che non lo vuole, che lo discrimina e che si rifiuta di “integrarlo”. Ovviamente, si tratta di una condizione completamente auto-indotta, e perlopiù con stratagemmi affatto superficiali e di infima lega.


Conclusione: il "Vittimismo Proiettivo" è un Virus Opportunista

La tattica del vittimismo proiettivo non appartiene certo solamente ai giovani militanti di sinistra dei campus universitari d’elite, ormai sequestrati manu militari da un manipolo di professori guru ex-sessantottini o figli (putativi) di tali, dei quali questi giovani studenti costituiscono vociante seguito apostolico. E’ stata fatta propria anche dalle molte minoranze, intente a esprimere con robotica insistenza il proprio malcontento all’insegna di un vittimismo basato su falsi proclami (come quello che in America viga ancora il “razzismo istituzionale”, o che esista l’“islamofobia”). E’, insomma, la tradizionale e patologica tendenza della sinistra a proiettare su altri responsabilità (o attributi negativi) che sono tutte proprie, un virus che ha intaccato la società al punto da creare falde di divisione difficilmente suturabili. Il vero tabù della sinistra, che è diventato a cascata il tabù di ogni minoranza presuntamente “oppressa”, è quello dell’ammissione delle proprie responsabilità alla base della propria condizione. Un atteggiamento, questo, che spingerebbe a rimboccarsi le maniche per diventare artefici del proprio destino in una società che di chance ne offre anche troppe e a persone che non lo meritano.
La strada per diventare adulti è sempre la più difficile, e il rifugio nel tepore di una condizione di eterna adolescenza sempre la cosa più allettante.

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