sabato 6 maggio 2023

UGUAGLIANZA VS. EQUITA', UNA DIFFERENZA POLITICA E ANTROPOLOGICA

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Chi segue le cose americane sa che da un po’ di tempo c’è in quel paese un dibattito tra chi sostiene il concetto di equità e chi quello di uguaglianza. Naturalmente, in un panorama in cui, come e forse più che da noi, i media e l’industria culturale in generale sono appannaggio della sinistra, “dibattito” va inteso nel senso che ognuna delle due parti parla ai suoi sostenitori: la sinistra censura e ammette nei propri chi esprime idee ereticali, la destra, unica a sostenere il principio della libertà di pensiero che la Costituzione Americana pone al primo posto, è costretta a sua volta rifugiarsi nei propri spazi protetti, Google e Facebook e altri alternative media permettendo.

1. Qual è la Differenza tra Uguaglianza ed Equità?

A un esame superficiale i due concetti sembrerebbero equivalenti. Ciò vale certamente per l’uso comune che se ne fa. Ma il diavolo sta nei dettagli, e questi concetti si sono ultimamente caricati di una valenza politica. E’ molto importante quindi definirli con precisione, perché da essi derivano politiche destinate a cambiare la nostra vita. Per illustrare la differenza tra “uguaglianza” ed “equità”, immaginiamo una gara di atletica dei cento metri, e compariamo i punti di vista dietro le due nozioni, cosa che faremo qui sotto.

1.a. Il Punto di Vista Meritocratico. Uguaglianza d’Opportunità, non di Risultato

Chi crede nell’uguaglianza ritiene che tutti debbano partire dallo stesso punto, senza favoritismi. Solo chi è più veloce, vuoi per un maggiore impegno nell’allenamento vuoi per doti naturali, vincerà. E', questo, un orientamento meritocratico: vince chi merita di più. Se uno non ha doti naturali sufficienti per competere al massimo livello, egli sarà relegato a un livello di competizione inferiore oppure potrà ovviare (per quanto possibile) alla genetica con un surplus di allenamento. In alternativa, potrà scegliere un’altra disciplina: il novero delle attività umane a cui la società riservi un certo livello di prestigio è virtualmente infinito. E, dopotutto, non è questa la tanto declamata “diversità” di cui tutti si riempiono la bocca oggidì? Non si vede quindi come ciò debba essere visto negativamente.

Può sembrare controintuitivo, ma chi sostiene il principio dell’uguaglianza crede nel fatto che non siamo stati creati tutti uguali, e che ciò è un cosa positiva. L’uguaglianza è uguaglianza di opportunità sociali iniziali, non di risultato. Il risultato è definito unicamente dal merito: tutti dovremmo partire dallo stesso punto, ma se io sono più dotato od ho lavorato di più degli altri, vinco. Così si mantiene una società ordinata e produttiva, dove ognuno s’impegna per dare il massimo e arrivare in alto.

Quindi, è ingiusta la critica che il punto di vista meritocratico nasconda un tentativo di cristallizzare disparità sociali già esistenti. Se questo può essere vero in alcuni casi, e cioè nella misura in cui anche il concetto più nobile può venire pervertito se alla base c’è una cattiva volontà, è anche vero che non avrebbe senso parlare di meritocrazia se poi uno parte con un vantaggio rispetto agli altri che gli sia conferito artificialmente (cioè per decreto sociale). La meritocrazia implica la capacità di avvantaggiare se stessi attraverso il duro lavoro, che crei una situazione di vantaggio partendo dal nulla o da doti già presenti naturalmente.

Gli innumerevoli esempi di persone che in una società a vero libero mercato come quella americana si sono sollevate dalla miseria per guadagnarsi una posizione di agio o addirittura di ricchezza offrono una prova reale della genuinità dell’impostazione meritocratica, rendendo ogni discussione oziosa.

1.b. Il Punto di Vista “Equitario” (1). Uguaglianza di Risultato, Sempre e Comunque

Chi crede nell’equità, invece, ritiene che tutti debbano arrivare allo stesso risultato, indipendentemente dalla situazione di partenza. L’equità vuole garantire un’uguaglianza di risultato: anche i minor dotati devono poter godere degli stessi esiti dei maggior dotati. Ma siccome il dato naturale del maggior talento non si fa contenere e comprimere, allora occorre un’intervento esterno d’autorità per garantire la suddetta entità di risultati, e ciò non potrà che avvenire nella forma di una penalizzazione del campione a vantaggio di chi non lo è. Nella pista d’atletica, chi è più lento partirà da più avanti; o il talento naturale dovrà partire con qualche secondo di ritardo; o, secondo un’analogia ancor più pertinente con la situazione che viviamo oggi, chi è primo dovrà tornare indietro e caricarsi in groppa il lentone.

2. I Danni e Le Perversioni del Punto di Vista Equitario

Va da sé che l’orientamento di tipo equitario ha due effetti disastrosi sul funzionamento della società. Vediamoli.

2.a) Equitarismo: un’Ideologia Anti-Umana perché Innaturale

Tracciamo un’altra analogia scomodando il concetto di tecnologia. Un uso produttivo della tecnologia è simile al judo: come nel judo uso lo slancio e la forza dell’avversario per sollevarlo e proiettarlo, così la tecnologia usata propriamente cerca di sfruttare, dirigere e convogliare i fenomeni naturali per trarne dei benefici. Ogni volta, invece, che la tecnologia vuole negare, sopprimere o comprimere la natura, ciò non può che portare a disastri di diversa portata.

Similarmente, l’intervento di un’autorità politica volto a sopprimere o correggere la naturale diversità di talento per garantire un risultato “equo”, cioè uguale per tutti, non potrà che portare alla negazione dei diritti naturali; e quindi all’autoritarismo, perché nessuno rinuncia volontariamente al proprio talento e ai vantaggi del proprio duro lavoro. Questo autoritarismo si traduce immediatamente in anti-umanismo, perché “la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”, e come al solito il buonismo, e cioè la dittatura del sentimento sulla realtà, alla base dell’equitismo nega in questo particolare caso la differenza naturale tra gli individui, cioè nega l’individualità, e quindi i diritti umani essenziali che si legano all’espressione di questa individualità.

Non solo l’equitarismo apre a una organizzazione autoritaria della società: esso garantisce anche a quel punto il sorgere di una società totalitaria. Perché l’equitismo, cioè la pretesa di una società senza differenze di risultato fra gli individui, è un’idea talmente innaturale che la violenza non basta più: occorre entrare nelle menti per modificarle strutturalmente. L’idea va inculcata con la propaganda, con la suggestione, con l’arte, con l’informazione, con l’educazione. Alla fine, nessun aspetto della vita è risparmiato dalla contaminazione di quell’idea, e una volta il principio interiorizzato, un minimo sindacale di sorveglianza sarà tutto ciò di cui l’elite avrà bisogno.

2.b. La Perversione dell’“Equitarismo” e il suo Essere Contro la Natura (Umana)

Varrà ora illustrare con un esempio la perversione dell’equitismo, che ha trovato e trova applicazione nei regimi socialisti, e che purtroppo oggi si sta imponendo come modello per le società occidentali.

Se io cancello il concetto di talento come fa una società basata non sull’uguaglianza ma sull’equità, cancello l’individualità, cioè la capacità della singola persona di affermarsi e distinguersi sulla base di quel talento, qualunque esso sia. Ne consegue quindi che l’equitismo presuppone il collettivismo. Il collettivismo, a sua volta, presuppone la ridistribuzione delle risorse in maniera uguale, attuata da un’autorità centrale a beneficio (o questo dice la propaganda) di una collettività. Ecco l’esempio di cui dicevamo. Il problema è il seguente: se io, per ipotesi, do un milione di euro a ciascun individuo, ci sarà sempre una maggioranza che lo sprecherà in beni di consumo o vizi, e ci sarà sempre una minoranza che, rinunciando alla soddisfazione immediata di bisogni materiali, lo investirà per creare altra ricchezza. A quel punto si attuerà inevitabilmente e in maniera naturale una redistribuzione che ricreerà una classe di ricchi, vanificando la distribuzione originaria ispirata dall’ideologia collettivistico-equitaria. Il capitalismo, nella sua forma più pura, non è quindi una costruzione artificiale ideata per lo sfruttamento dei più deboli, come vuole la retorica marxista: esso opera in sintonia con quanto è lecito aspettarsi dalla natura umana. E parlo di “natura umana” a proposito, perché questa definizione contiene i due caratteri che compongono l’essenza dell’essere umano e ne guidano l’agire. “Natura” fa riferimento alla parte animale dell’uomo, incarnata dalla soddisfazione immediata di bisogni. “Umana”, d’altro lato, fa riferimento alla specificità dell’uomo, unica nel mondo animale, di differire la soddisfazione dei bisogni per investire sul futuro, ciò che è ben illustrabile con i concetti di “ambizione” e “progetto”.

Così, se lo Stato mi dà un gallo e una gallina, io posso ucciderli e gustare la loro carne. In alternativa, posso farli riprodurre, creare un allevamento e vendere galline a chi le consuma per incamerare profitti. A questo punto, però, lo Stato socialista interviene per operare una nuova ridistribuzione, togliendo ai nuovi ricchi (cioè chi ha impiegato il milione come capitale) per dare ai nuovi poveri (cioè chi il milione l’ha scialacquato) e non potrà farlo che con la forza, perché, ancora, nessuno può rinunciare volontariamente ai frutti del proprio duro lavoro (espropriazione) per darli a chi non ha meritato nulla (ciò che aggiunge un elemento di umiliazione). L’intervento “riequilibrante” dello Stato avverrà ogni qual volta si crei questo squilibrio, il che sarà inevitabile, come inevitabile sarà la deriva totalitaria, cioè l’evoluzione dell’oppressione a sistema diffuso capillarmente, anche a livello della coscienza individuale.

La creazione di una società che premia il talento e il sacrificio è ciò che abbiamo se lasciamo libero corso all’agire umano, semplicemente regolando le relazioni umani attraverso leggi non intrusive e oppressive. D’altro lato, una società collettivistico-equitaria può esistere solo se imposta attraverso un sistema di regole autoritario, che tiene poco o nulla in conto la natura umana, il tutto in ossequio all’obiettivo illlusorio e utopistico di una collettività in cui tutti godano sempre in egual misura delle risorse.

2.c) Equitarismo: la Fine del Merito come Principio Attivo del Miglioramento della Società

Ovviamente, nel momento in cui io garantisco un risultato equo (cioè uguale) per tutti, la meritocrazia cessa di esistere, e così ogni forma di competizione. Cosa potrà motivare una persona a impegnarsi e a lavorare duramente per un risultato, se sa che chiunque, anche chi preferisce perdere tempo in attività improduttive, potrà raggiungerlo? Naturalmente, l’esistenza dello sport potrà essere giustificata solo in senso nazionalistico, cioè come forma di competizione con altre nazioni. E’ ciò che avvenne con l’Unione Sovietica, che non a caso a tal fine impiegò in modo sistematico e industriale sostanze dopanti per sfornare in maniera artificiale campioni che l’organizzazione sociale (comunista, cioè basata sull’“equità” e quindi anti-meritocratica) non poteva produrre.

Una società basata sull’equità, e cioè sul “privilegio del più debole”, è una società che non può funzionare, perché è contro-natura e come tale insostenibile. A tal riguardo, i fallimenti di simili progetti nella Storia sono un libro aperto.

Un’organizzazione socialista della società (o i suoi indici, come il modello americano dell’“affermative action” johnsoniana) è un’organizzazione nella quale non solo lo Stato premia il minor-dotato o chi non ha voglia di fare, ma che costringe anche gli elementi più produttivi della società a sobbarcarsi i destini degli "ultimi" attraverso un sistema soffocante di tasse o altre rinunce. Tornando all’analogia della pista d’atletica, e come già accennato, vedremmo il campione caricarsi l’outsider sulle spalle per tagliare assieme a lui il traguardo. A dispetto della retorica che l’accompagna, la società equitaria è una società che nega l’uguaglianza, perché solleva una parte della popolazione oltre i propri meriti, e sottopone tutti gli altri a regole penalizzanti che valgono solo per loro.

Chiamare l’equitismo una forzatura è limitarsi al minimo: esso è un obbrobrio contro-natura, è una perversione politico-sociale che non mancherà mai di distruggere le fondamenta della società nella maniera più subdola e irreversibile. Tanto vale a questo punto chiamarlo con il suo vero nome: socialismo. (2)

(2) Uso qui i termini "equitario" ed "equitarismo" non per il gusto tutto intellettualoide di coniare nuovi termini, ma per mancanza di corrispettivi nell'Italiano (almeno quello da me conosciuto). In attesa di proposte migliori, il sottoscritto chiede indulgenza.

(2) Dopo aver letto l'articolo sarà forse chiara l'operazione tipica dei "progressisti" di snaturare il significato di determinati concetti per affermare quelli che l'agenda progressista prevede in contrapposizione a essi. Si veda per esempio l'immagine offerta a corredo con l'articolo e onnipresente nei motori di ricerca qualora si ricerchi "equità". Qui il concetto di "uguaglianza" ("equality" in inglese) è diffamato in modo grottesco all'unico scopo di porre in buona luce l'altro concetto di "equità" ("equity").

 

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