mercoledì 26 giugno 2013

LA QUERELA COME ATTO INTIMIDATORIO

(Difficoltà: 4,2/5)
La  querela può diventare uno strumento intimidatorio, e quindi antidemocratico, perchè può essere usata per inibire la libertà d'espressione e di denuncia.
La querela fa sì che la libertà di parola sia subordinata al livello di censo: i tempi della giustizia italiana e le alte parcelle degli avvocati costituiscono una combinazione micidiale per chi non goda di benestare economico. L'incertezza della pena si declina poi in una duplice forma a offuscare ulteriormente il quadro: chi mi dice che chi ha i soldi per tenere per anni a libro paga un avvocato non li abbia anche per comprarsi la sentenza? Non viviamo dopotutto in uno dei paesi più corrotti al mondo? E: ammesso che io abbia ragione e il giudice confermi, al terzo grado di giudizio – cioè dopo anni - , che i reati che ascrivevo al querelante sono reali, cosa rischia questi veramente rispetto a quello che rischio io, considerati i vari indulti, gli sconti di pena e il perdonismo di una legislazione penale fatta dai colletti bianchi per i colletti bianchi? 


La Legge Nasce per Tutelare i Deboli, Non i Forti

La legge è nata per i deboli, non per i forti. Per i forti già esistono le leggi di natura (dove all'ereditarietà dei tratti somatici nel regno umano si affianca l'eredità patrimoniale e di status sociale), che li privilegiano. Ne consegue che la legge non deve essere imparziale, bensì seguire la sua vocazione nel porsi a tutela della parte offesa. Resta inteso che il “debole” è colui che ha subito il torto in una specifica occasione, e quindi il concetto non definisce per principio e in partenza una condizione sociale o di censo.
I problemi strutturali del sistema giudiziario italiano – afferenti in pari tempo a questioni amministrative e legislative – implicano purtroppo la creazione di forti squilibri. Come impedire, quindi, che anche le querele per ingiuria o diffamazione non diventino espedienti intimidatorii in grado di interferire con la libertà di cronaca e di opinione?
Con la naturale premessa che le lentezze e le storture del nostro sistema giudiziario hanno una ragione d'essere nella gaglioffaggine della nostra classe dirigente, la principialità della Costituzione potrebbe forse offrire leva per insenature interpretative del codice e richiamare così concetti come la “verosimiglianza” del giudizio apparentemente lesivo, la fondatezza di questo in accadimenti precedenti ecc. A titolo di esempio, la querela a seguito di un'accusa giornalistica, anche qualora questa non fosse sorretta da prove decisive, dovrebbe essere rigettata in nome dei principi di libertà e di verità ricavabili dalla Costituzione. L'attribuzione di un fatto dovrebbe fungere da stimolo per gli organi di informazione e di giustizia per far luce su eventuali responsabilità, in ragione di un criterio di trasparenza perfettamente afferibile ai principi della libertà d'espressione e di parola.
La semplice constatazione di una pregiudiziale nell'inizio di una causa per diffamazione - alla luce per es. di un semplice criterio di verosimiglianza della dichiarazione presuntivamente lesiva - dovrebbe inibire l'avvio del procedimento, se non per accertare la veridicità delle attribuzioni e quindi il valore testimoniale delle attribuzioni emerse, decidendo così per il luogo a procedere ovvero per un obbligo di rettifica. Il giudice dovrà valutare già in sede preliminare la buona fede del querelato, cioè la sua intenzione o meno di ricercare la verità.
Per questioni minori quali scaramucce o insulti, spontanei ovvero poco o per nulla legati a fatti specifici, il giudice dovrebbe – come per altre situazioni simili – subordinare la questione a un criterio economico e di censo: se la parte lesa ritiene che la propria dignità in casi triviali le valga più delle spese legali, può chiedere e ottenere giudizio. Solo in caso di evidente disparità economica a vantaggio del querelato si dovranno disporre provvedimenti risarcitori e  il rimborso totale delle spese legali, qualora si riscontrasse l'infondatezza delle attribuzioni. E' il caso, per es., di un datore di lavoro che insulti un dipendente. Il pagamento delle proprie spese legali, per converso, dovrebbe essere sufficiente punizione per il querelato condannato/soccombente, quando questi ricopra un livello economico-sociale significativamente inferiore rispetto al querelante.
Una giustizia che si possa ritenere tale deve tener conto dei soprusi e storture generati da un consistente divario nei rapporti di forza.


Conclusione

In conclusione, la giungla delle denunce per diffamazione - strumento particolarmente in voga fra politici interessati a imbavagliare la stampa - potrebbe essere fatta uscire dallo “stato di natura” in cui versa – e in cui scade a strumento di sopraffazione del forte sul debole – rendendo il concetto “feudale” di “onore” (non a caso caro alla mafia) qualcosa di gregario rispetto ai principi civili e costituzionali della libertà, della verità e della trasparenza, gli unici in grado di decidere sulla fondatezza di certa onorabilità.  


ZUPPA DI ZOMBIE: "Anche gli Zombie Hanno un Cuore"

Anche gli Zombie Hanno un Cuore

lunedì 17 giugno 2013

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9987

(Difficoltà: 0,9/5)

 IL "ZUCCO", OVVERO L'ARROGANZA DELL'
"ESTEROFILIA" GIORNALISTICA

Il "Zucco" lui-meme
Se c'è una cosa che mi fa incazzare è il “giornalista inviato col ditino alzato”, cioè quel giornalista che risiede all'estero e che periodicamente, dalle poltrone dei talk-show o più comunemente in collegamento “etereo” da lidi dove la democrazia, lì sì, funziona a mille, ci versa il calice amaro della nostra inferiorità come Stato, come economia, come mentalità, come altezza media dal suolo e scelta di deodorante ecc., al cospetto del paese che lo ospita tra suite d'albergo e cene quotidiane in ristoranti, pagate spesso (si suppone più che volentieri) dal contribuente medio italiano. Questa figura è oggi rappresentata per ampi versi da Vittorio Zucconi, inviato “ammerigano” full-time (sembrerebbe), figlio di papà (il paparino Guglielmo fu pure giornalista-direttore – olè – e SEMBRA che il Vittorio sia il solito raccomandato, ma... suvvia, sempre a pensar male!).

Questo giornalista grassoccio, pelato e sudaticcio, arrogantello e saputello, dalle guanciotte rossicce e l'apparenza magnona e godereccia, ha fatto show di se stesso nella puntata di Piazza Pulita del 10/06/2013, che qui sotto ripropongo. Eccezionalmente, qui il nostro confezionatore di reportage dall'estero (ma più spesso di opinioni proprie che non interessano una ceppa a nessuno), calca (supponiamo sdegnato) il suolo italico e si materializza in persona nello studio in luogo, come d'uso, di concedersi madonnescamente da oltreoceano mercè collegamento esterno (con tanto di faccione in schermo da 500'' e audio ritardato e echeggiato à la papa G. Paolo II).
Invito il lettore a prestare particolare attenzione ai punti elencati sotto al video, dove la saccenza e arroganza di questo pluripremiato monstre del nostro giornalismo d'esportazione s'appalesa in tutta la sua virulenza.

  • A partire da 1:30:20, il nostro fa una implicita tirata-spot per la proposta di legge della Finocchiaro volta a far fuori i movimenti come il M5S dalle prossime elezioni politiche.
  • A partire da 1:39:15 il nostro non si vergogna di dire che è andato a mangiare a casa della piccola imprenditrice Nonino, presente in studio. Viene da chiedersi: a che titolo? E il famoso principio del distanziamento fra giornalismo e potere (politico e economico)? E se il Zucco va a cena a casa di una piccola imprenditrice, che fa con uno del calibro di Marchionne o Geronzi?
  • All'1:42:08, parla il Professore Becchi, vicino al M5S. Quando questi si incarta all'inizio di una frase, il Zucco lo prende per il culo: “Ma, ma, ma”.
  • A partire da 1:42:45, Zucconi si esibisce in uno sboccacciato sfogo contro Becchi e l'“assemblearismo”.Si ode ben distinta la parola "cazzo".
  • A partire da 2:03:30, il Zucco ancora dileggia Becchi, dicendogli: “Ma cammina, (và)” in risposta a una parola usata da questi.

E chi l'avrebbe detto che il nostro glorioso paese non esporta solo salsa di pomodoro, mozzarelle, caciotte e cavoli, bensì anche cospicui cervelli giornalistici? Ma soprattutto: perchè? Forse per somministrare alle nostre pantanose paludi provincialistiche periodiche folate di internazionalismo, attraverso il sano metodo dell'arroganza tesa a umiliare e a ricordarci che siamo tutti delle merde? O forse perchè, dopo attenta considerazione, è meglio che certi cervelli se ne stiano fuori dai... patrii confini? E ancora: ma c'è qualcosa di più provinciale dell' italiano "scugnizzo a New York" che, scambiando la grandezza dei grattacieli per la propria, si mette a guardare dall'alto verso il basso la terra che gli ha dato i natali?
La prossima volta (ma questa volta: veramente!) fateci caso.

Donna-Vampiro

martedì 11 giugno 2013

ZUPPA DI ZOMBIE: "Morte di Coppia"

Morte di Coppia

IL LATO OSCURO DELLA POP-CULTURE: WALT DISNEY

 (Difficoltà: 4,2/5)

Daniel Adel — Walt DisneyLa critica alla cultura popolare in quanto tale non è solo artistocratica e snob: è concettualmente assurda. Cosa ci può essere di meglio, concettualmente, che una cultura che si rivolge al popolo, dopo che questo è stato per millenni relegato all'elemento naturale e irriflesso della condizione di sopravvivenza? Il concetto stesso di una cultura “popolare” è in sé rivoluzionario. Ciò a cui si dovrebbe rivolgere la critica è semmai l'intenzione dietro la cultura popolare: se questa assolva scopi partecipativi e divulgativi o se, al contrario, si instauri monodirezionalmente e serva gli scopi del consumo e dell'oppressione ideologica e “di casta”.

sabato 8 giugno 2013

ARTE E CRITICA DELLA SOCIETA': UN RAPPORTO IMPOSSIBILE?

(Difficoltà: 4.1/5)

La Filosofia non Può Essere "Originale"

George Grosz: "Sonnenfinsternis" (1926), Heckscher Museum, New York
Iniziamo col dire che quando si parla di un filosofo, lo si definisce spesso “originale”. Ma l'aggettivo è quanto di più sbagliato: la filosofia è la capacità di leggere, di rispecchiare e spiegare i fondamenti della realtà, che sono già lì presenti da sempre (per la filosofia “sostanzialistica”) o nella contingenza storica (per gli “storicismi” quali quello marxiano, per il quale anche il capitalismo è una forma storica che ha un inizio e una fine). La filosofia non è arte, quindi si può parlare di acume e intelligenza del filosofo e della sua opera, non certo di “originalità”, perchè questa implica creatività e inventiva. Al limite, una filosofia potrebbe essere detta "originaria" in quanto meglio si aggancia alle origini della realtà o della condizione umana in senso ontologico o storico.
A voler trattare la questione con rigore, anche l'originalità dell'artista sarebbe immanente alla tecnica, cioè al “filtro” stilistico (pointillisme, surrealismo, cubismo ecc.), quindi alla superficie, essendone il contenuto - dalla critica sociale di un George Grosz al decadentismo di Klimt per arrivare all'“angoscia” di Munch - qualcosa di ricavato da un contesto storico o storico-esistenziale, contingente ma pur sempre vissuto e effettuale, o dall'universo immutabile delle pulsioni e dei desiderata umani.


Arte e Critica della Società: un Rapporto Impossibile?

Anche l'arte in un certo modo si sforza di riconoscere la realtà, ma non con l'obiettivo di spiegarla, bensì di esprimerla. Per questo, essa è costretta a modificare “creativamente” il suo stile a seconda delle emergenze portate alla luce dal nuovo spirito dell'epoca. Per esempio, a seguito di un periodo di crisi epocale quale quello del periodo che dalla seconda metà dell'800 portò alla Grande Guerra, era fatale che il linguaggio dell'artista si volgesse più decisamente all'espressività. La brutalità e l'irrazionalità della condizione umana erano state portate alla luce nel modo più brusco, confermando una consapevolezza che già fermentava da tempo nell'ambito filosofico e culturale (Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Bergson), e avrebbero imposto una “lettura” più essenziale e comprensiva della realtà, la ricerca di un minimo comune denominatore dell'agire umano e della natura che avrebbe smascherato il metodo realista come inadeguato. Se nell'arte antica e moderna l'atto empio poteva essere fermato nel tempo come fatto singolo, legato a un fatto storico o a una narrazione mitica, e il collegamento con una condizione universale era lasciata alla sua rilevanza storica o a una simbologia già tramandata (ad es. la “Cacciata dal Paradiso” di Masaccio illustra un fatto biblico che è perciò già di per sé portatore di una caratura simbolica e universale), ora esso diventa solo una singolarità nel violento magma della passionalità umana in sé o nella sua interazione con una storicità che la rivela per ciò che essa è veramente. Il risultato è che diventa inessenziale soffermarsi sul singolo atto, e bisogna invece adeguare il medium artistico nel senso di una più grande e decisiva generalizzazione. Non più il delitto, ma la passione che rende possibile il delitto; non più il fatto storico o umano, ma la condizione storica o umana. Non più il Realismo, ma l'Espressionismo (cioè la prima tendenza del nuovo corso avanguardistico dell'arte novecentesca).
Ecco allora che la parola “realtà” lasciata a se stessa non è materia né della filosofia né dell'arte in senso moderno: entrambe non hanno interesse per la realtà per come si manifesta, ma si pongono un problema della “verità della realtà”, della sua lettura e interpretazione. La via intrapresa dall'arte sarà quella dell'espressività, quella della filosofia la teoria e la spiegazione.


Arte e Critica della Società: un Rapporto Impossibile?

Tutto questo detto, l'arte contemporanea può possedere una carica socialmente critica, ma questa è lasciata alla suggestione e al potere evocativo dell'immagine. L'arte cioè “suggerisce”, non spiega, e quindi non consente, anche nelle sue forme più efficaci, una partecipazione consapevole e attiva dello spettatore, che rimane quindi un “astante”, un soggetto contemplativo, anche se nel senso più alto. E poco aggiunge l'indubbio assorbimento partecipativo del nuovo fruitore dell'arte, che è in grado di operare “letture” di stili divenuti complessi e di scorgere referenti tematici delle opere sempre più nascosti dietro lo stile: tutto si svolge all'interno del discorso artistico. E' quindi facile comprendere come l'arte d'Avanguardia abbandoni ben presto la critica della società, che non aveva mancato di incarnarsi in forma “diretta” in manifestazioni potenti (il già citato Grosz), per convogliare l'aspetto critico nell'ambito angusto del “sottosistema sociale artistico” (Peter Bürger), in forma di una polemica nei confronti dell'irregimentazione del discorso artistico nell'istituzione museale e in tutti i santuari della contemplazione borghese. Già solo in questa limitazione del suo abbraccio critico, già solo per il fatto cioè che l'arte dell'Avant-garde “settorializza” la sua critica, marchiandosi a fuoco con quel tipico contrassegno dell'organizzazione borghese della società che è la “divisione del lavoro”, il suo discorso si riduce a null'altro che a una diatriba interna al mondo borghese, e il riscontro nella sua impostazione di un certo retrogusto snobistico e elitario non è casuale: molta dell'arte dell'Avanguardia Storica, se non tutta, supera l'arte borghese non in direzione del popolo, ma in direzione di un'aristocraticità contenente già i germi della sconfitta a venire.


L'Arte Situazionista come Prima Autentica "Arte Critica”

Fu così che l'accostamento di un impianto teorico all'arte non potè andare aldilà dei “manifesti” introduttivi, come quello celebre di Breton. Solo i Situazionisti, corrente di nuova avanguardia artistica sorta negli anni'50, cercarono di implementare una reale integrazione fra teoria e prassi, cioè fra filosofia e critica della società e arte. L'arte viene pensata a partire dalla “teoria” - che è fondamentalmente la “teoria critica” della Scuola di Francoforte, cioè l'impiego delle categorie marxiane in una prospettiva interdisciplinare - e questa vede a sua volta nell'arte un imprescindibile correlato pratico. La società – questo il messaggio situazionista - non deve solo essere capita attraverso la teoria, ma anche trasformata attraverso l'arte; nel contempo, l'arte non può operare da sola, ma deve avvalersi di un impianto teorico che la guidi, pena l'autorelegarsi a “sottosistema sociale” e culturale nell'organizzazione borghese della società e quindi, sostanzialmente, l'esservi assimilata come feticcio dell'autocontemplazione borghese (diventato nel frattempo il consumismo delle immagini nello Spettacolo).
Invece, i dipinti di Grosz entrarono nei musei, e vi entrarono per essere contemplati e “goduti” dalla stessa borghesia egoista, lussuriosa e corrotta che essi raffigurano.

Tuffatrice Russa