Alcuni esperti tendono a restringere il
campo di ciò che può dare dipendenza. Altri invece propendono per
un allargamento dell'ambito (cfr. qui). E' chiaro al senso comune che tutto ciò che dà piacere può dare dipendenza. Questo è parte della
natura umana. Ma se consideriamo l'habitat umano, nella fattispecie i
condizionamenti sociali e l'operare delle multinazionali, allora
il campo si allarga ancora di più. Infatti: la sigaretta è fra le
cose che più danno dipendenza, eppure le prime boccate sono per
tutti qualcosa di sgradevole. Lo stesso dicasi per l'alcool: è
impossibile negare che vino, birra e grappa facciano inerentemente
ribrezzo (il gusto dell'amaro è presente in natura per segnalare
qualcosa di potenzialmente velenoso). Eppure molti fumano e bevono:
per effetto del condizionamento sociale (queste attività rendono
“cool”) ma anche delle sofisticazioni dell'industria (l'industria
del tabacco è da sempre accusata di impregnare le sigarette di
additivi per aumentare la dipendenza nel consumatore). Quindi c'è
qualcosa che dà dipendenza “naturalmente”, perchè è buono ai
sensi umani, e questo rientra nell'istinto di conservazione o
procreazione (cibo, sesso ecc.). Ma c'è anche qualcosa che dà
dipendenza per via più o meno artificiosa e artificiale, che ripugna
ai sensi, e che fa leva sull'istinto di morte e di autodistruzione.
Piacere irrisolto, dovere incompiuto
La distinzione fra la dipendenza da
cose che si consumano e i comportamenti che configurano una
behavioral addiction, è
più qualcosa di accademico che di reale. Anche il consumo del cibo
assume, varcata la soglia della normale fisiologia, un tratto
compulsivo che sposta il fulcro del problema dalla materia (il cibo)
al gesto (l'atto di abbuffarsi): il bulimico si ingozza di un cibo
che non vuole veramente, e che poi espelle con il vomito. Verrebbe da
chiedersi se l'intero fenomeno della dipendenza non si esaurisca in
fondo nel punto in cui la dimensione fisiologica trapassa in una
dimensione comportamentale. Sta di fatto che la dimensione compulsiva
del gesto ridimensiona di molto il piacere che si può ricavare
dall'atto fisiologico: atti come l'alimentarsi, l'avere sesso, la
comunicazione (social network) o il gioco (videogiochi, videopoker)
possono diventare coazione a ripetere, riflessi semi-condizionati che
vengono eseguiti quasi in trance e che si travestono paradossalmente
da senso del dovere.
Sono
del resto gli studi sulla dipendenza a farci propendere per una
teorizzazione olistica della stessa: tutto può dare dipendenza, se
ripetuto a sufficienza. Quando non sussiste l'elemento del piacere,
c'è pur sempre il “senso del dovere” a giustificare l'atto
coattivo. A tutti è capitato di sorprendersi a pensare di aver fatto
il proprio dovere dopo aver ingurgitato l'ultimo bicchierino della
giornata, o aver fumato l'ultima sigaretta, o aver fatto l'ultimo
post su Facebook, o aver completato l'ultima partita a Tetris o a
Buzzword. La frequenza patologica di queste e altre attività da un
lato toglie loro quasi ogni piacere; dall'altra, la stessa coazione a
ripetere fa percepire l'attività come un dovere da espletare. Il
piacere si identifica con il dovere in modo tale che il primo viene
tolto di mezzo e il secondo è fin dal principio e per natura
completamente falsato. Il dovere è dato dall'inseguimento di un
piacere che non si può afferrare, quindi anche il dovere non è
espletabile. Alla frustrazione fisica di un piacere irraggiungibile
si aggiunge quindi la frustrazione morale (anzi pseudo-morale) di un
dovere costitutivamente inespletabile.
Conclusione
Io
penso che ognuno di noi dovrebbe interrogarsi sulle eventuali fonti
di dipendenza (che possono essere le più impensabili e disparate)
nella propria vita e farsi domande come: perchè sto facendo questo?
Mi dà veramente piacere? Qual è la mia “dose” di tolleranza
oltre la quale il piacere lascia il posto a una ripetitività vacua e
compulsiva? La soddisfazione morale che provo nel fare una cosa trova
la sua giustificazione nella cosa stessa o è mal riposto? Come
abbiamo visto, la consapevolezza morale passa anche attraverso la
consapevolezza del proprio corpo e delle sue pulsioni.