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Premessa. L'articolo è lungo e non proprio
facile, ma è reso il più chiaro possibile e rappresenta in sé e
nel suo piccolo – senza falsa modestia grazie anche alle parti in
cui “espando” il pensiero di Schopenhauer - una specie di manuale di propedeutica
filosofica. Buona conoscenza.
La filosofia di Schopenhauer è la
filosofia del pessimismo più radicale.
In apparenza, il pensiero
di Schopenhauer segue i dettami di tanta filosofia tradizionale e le
orme di Hegel, un filosofo che peraltro egli disprezzò. Si tratta infatti di
una filosofia deduttiva, che mira a spiegare tutta la realtà sulla
base di un principio unico: un po' come accade con Marx e l'economia
e con Freud e l'eros. E quanto accade con Hegel e lo Spirito Assoluto (ossia il potere assoluto della ragione umana, che crea tutta la realtà nel momento in cui la pensa),
appunto. Ma a differenza di Hegel, prima di essere deduttiva, la
filosofia di Schopenhauer è induttiva: essa deduce sì tutto
l'essere dell'universo da un principio (“deduttiva” = dal
generale al particolare), ma questo principio è ricavato
in origine dall'osservazione dell'universo, del mondo stesso (cioè c'è
“induzione” = si procede dal particolare al generale).
Quindi: prima si osserva il mondo per
ricavare il principio attraverso cui questo opera, e poi si
interpreta il resto dei fenomeni del mondo sulla base di questo
principio, deducendo da esso realtà, circostanze, comportamenti e
motivazioni.
Il principio che secondo Schopenhauer
governa il Tutto è la Volontà di Vivere (Wille zum Leben, in tedesco).
1. Il
Mondo Come “Volontà”
L'opera principale di Schopenhauer |
Vedendo che l'esistente si presenta,
fin dalle più elementari forme di vita, come una continua lotta per
la sopravvivenza, in cui la vita dell'individuo non riveste alcuna
importanza al cospetto della sopravvivenza e prosperità della
specie, ma anzi è contrassegnata dalla sofferenza, Schopenhauer ne ricava che l'essenza dell'esistente, cioè il
principio che governa il Tutto, e che i nostri sensi non ci
permettono di rilevare, è quella che il filosofo tedesco chiama Wille, "Volontà
(di vivere)”.
“Volontà di vivere”: questa denominazione sembrerebbe a prima vista rimandare a qualcosa
di positivo. Dopotutto, cosa ci potrebbe essere mai di negativo nella volontà di vivere, di preservare la propria vita e prosperare? Il
fatto che la vita è per Schopenhauer appunto, dal punto di vista
dell'individuo, sofferenza, dolore. Ciò che conta per la Volontà è infatti unicamente la prosecuzione della specie, la cieca
moltiplicazione degli individui all'interno della specie, e delle
specie all'interno del mondo. In un siffatto contesto, la vita
dell'individuo è perfettamente sacrificabile, e la Volontà non si
cura di lui, né tantomeno della sua felicità.
E sarebbe un errore ritenere che la
sofferenza riguardi solo l'essere umano, o anche solo gli esseri
senzienti. La Volontà di vivere, che è la radice
metafisica (cioè la base prima, il fondamento non visibile) della sofferenza nel mondo, rappresenta il Tutto,
nulla escluso. Quando noi moriamo, ci dissolviamo nella sostanza del
Tutto, nella Volontà, e “rinasciamo” come qualcosa d'altro di
animato o di inanimato. (Anche il mito induista-buddista
della reincarnazione si basa su questa fondamentale intuizione).
Essendo quindi la Volontà il Tutto, anche gli oggetti inanimati, pur
non “sentendo”, soggiacciono alla legge della sofferenza
universale: il crack! che udiamo quando spezziamo un bastone di legno
o pieghiamo un pezzo di plastica, è per Schopenhauer il “gemito”
della materia. La sofferenza è il vero principio che regola
l'Universo; è il contrassegno del Tutto, il vero datum universale.
La Volontà è quindi paragonabile a un “dio negativo”, un'entità
irrazionale che non si cura minimamente della vita dei singoli,
considerandoli invece degli elementi perfettamente sacrificabili
sull'altare di una cieca e assurda perpetuazione di sé. Essa è
eterna e unica, perché
include tutto l'esistente. Ma è anche forza irrazionale e
cieca, priva di senso o di un fine ultimo.
1.1
“L'Esistenza è un Pendolo tra il Dolore e la Noia”
La felicità
individuale è un'illusione: essa s'identifica con l'appagamento di
un bisogno, con la soddisfazione di un desiderio. Ma questo
appagamento non è mai definitivo, e l'inseguimento della felicità è
solo un cammino circolare che porta sempre al punto di partenza.
L'unico dato costante della vita umana – e, in forma più
attenuata, di quella di tutti gli altri esseri senzienti - è la sofferenza determinata dalla nostra natura di
esseri desideranti. L'appagamento di un determinato desiderio porta
solo a una condizione di stasi insopportabile, una condizione che ci
spinge a desiderare qualcosa d'altro e ad arrabattarsi per
ottenerlo; e così all'infinito. Ciò porta Schopenhauer a dire che
la nostra esistenza è un pendolo tra il dolore (la tensione verso la
soddisfazione del desiderio) e la noia (l'avvenuto appagamento, che
però già ci spinge a guardarci attorno per cercare il prossimo
oggetto del desiderio ). Se avvertiamo fame e desiderio sessuale,
entriamo in uno stato di tensione e sofferenza, e la soddisfazione
del bisogno coincide con la rimozione del dolore. Ma la rimozione del
dolore lascia il posto a un senso di vuoto dovuto alla mancanza di
uno scopo: lascia il posto alla noia. Il tutto fino al rinnovarsi del
bisogno, in un ciclicità che non conosce mai fine, come mai fine ha
la sofferenza dell'individuo. Il piacere e la gioia non esistono in
sé, ma solo in funzione del dolore: il dolore è la realtà
originaria; piacere e felicità sono solo dei derivati. L'uomo è
poi, per Schopenhauer, l'essere che soffre di più, perché in lui i
bisogni sono più numerosi e intensi e così lo è sofferenza che a
essi si lega. La pubblicità ci propone in ogni momento oggetti del
desiderio, dietro la promessa che essi ci renderanno felici, e che
“non avremo bisogno d'altro” più nella nostra vita. Ma la
ricerca della felicità rimane sempre frustrata: essa si rivela
tutt'al più solo una gioia passeggera.
Essendo l'uomo tra
tutti i viventi l'essere con il maggior – a tutti gli effetti,
infinito - ventaglio di desideri egli è anche il più infelice, e la
sua esistenza la più miserabile.
1.2. Lo Scopo
della Volontà è la Perpetuazione della Specie. L'Individuo è del
Tutto Sacrificabile
Una femmina di mantide religiosa divora il partner |
Fame e desiderio
sessuale, si diceva. Essi sintetizzano rispettivamente le forze
dell'autoconservazione e della riproduzione. Quale delle due è più
importante e rilevante nella nostra vita? (1) La risposta, per
Schopenhauer, curiosissimo cultore delle scienze naturali, non può
lasciar spazio a dubbi. Quali sono infatti le priorità della Volontà? L'osservazione della natura (all'esterno e all'interno
di noi), ci viene incontro nella risoluzione di questo quesito. Se
guardiamo al mondo animale, ci rendiamo conto che presso alcune
specie è norma per il partner maschile, nella fase del
corteggiamento, l'intraprendere un percorso rischioso, che si
conclude spesso con la morte. E' il caso del maschio della vedova
nera e di quello della mantide religiosa. Perché sacrificare la
propria vita per l'accoppiamento? Perché l'istinto dice a queste
creature che la loro vita individuale è perfettamente sacrificabile
in funzione della procreazione e della perpetuazione della specie.
Anche la disponibilità – normale, nel mondo animale - da parte
della madre di sacrificarsi per salvare la vita dei piccoli, ciò che
la sensibilità umana dipinge – e non del tutto a torto - con le
tinte di un amore eroico e incondizionato, è in realtà nient'altro
che la risposta a questo istinto primordiale che ci fa mettere la
salvaguardia della specie prima di quella dell'individuo, cioè di
noi stessi.
La Volontà si manifesta insomma nel mondo con il contrassegno del darwinismo
più spietato, che vede il debole soccombere e l'individuo
sacrificarsi per la specie. Ciò è presente dappertutto: agli esempi
dal mondo animale sopra citati si potrebbe aggiungere – al vertice
della scala evolutiva - quello della superpotenza che decide di
sacrificare soldati e civili in guerre combattute per la
sopravvivenza del “sistema” e “per il bene dei nostri figli”
e “delle nuove generazioni”.
Rivolgiamoci ora
alla natura dentro di noi, e anche qui scorgeremo lo
stesso scenario. Interroghiamoci per un momento sulle nostre
abitudini e su una domanda che raramente ci poniamo in modo
consapevole: qual è la gerarchia dei nostri bisogni e piaceri? Il
nutrirsi viene prima o dopo l'accoppiarsi? Non è forse vero che,
quando siamo eccitati sessualmente, anche il senso dell'appetito deve
farsi da parte finché non sia stato soddisfatto l'impulso sessuale,
il quale domina in quel frangente ogni nostro pensiero? La verità è
che la forza che governa il nostro comportamento nel modo più
dispotico e intransigente è l'istinto sessuale, non quelli legati
alla nostra sopravvivenza individuale, tra i quali la sete o la fame.
E' pur vero che l'istinto sessuale deve farsi da parte nel momento in
cui il cibarsi o l'assetarsi sia per noi in quel momento questione di
vita o di morte. Ma si tratta di un caso estremo: dopotutto, la
procreazione non può avere luogo se l'individuo non sopravvive.
Riflettiamo però su un punto, o meglio su una circostanza: se,
naufraghi su una zattera e con una limitata riserva di cibo e acqua,
ci trovassimo di fronte alla scelta se nutrire noi stessi o nutrire i
nostri figli, come agiremmo? La risposta – penso ovvia per tutti –
non può che farci concludere, con Schopenhauer, che anche noi siamo
programmati per privilegiare la perpetuazione della specie, e quindi
la soddisfazione dell'istinto sessuale, rispetto alla nostra salvezza
individuale, cioè all'istinto del cibarsi, dell'assetarsi o di salvaguardare la nostra incolumità.
Anche l'amore
sessuale, cioè il sentimento che ci lega al partner sessuale, è,
come tutti i piaceri e le gioie, un'illusione. Esso non è altro che
un travestimento del puro istinto sessuale, uno stratagemma ideato
dal “Genio della specie”, dalla Natura, per ammantare di nobiltà
il “crimine cosmico” della perpetuazione della sofferenza
esistenziale attraverso la procreazione. Questo fatto, il fatto cioè
che la generazione di un nuovo individuo sia un atto iniquo in quanto
non fa che rendere possibile il nuovo dolore legato a
quell'individuo, è riflettuto nel mito biblico del peccato
originale: ciascuno di noi nasce col marchio dell'innocenza per le
sofferenze che, inevitabilmente e necessariamente, subirà; ma ognuno
di noi nasce anche col marchio della colpevolezza per le sofferenze
che, altrettanto inevitabilmente e necessariamente, causerà.
1.3. All'Interno
del Mondo non Esistono Libertà e Libero Arbitrio: Tutto è
Predeterminato
Meccanicismo |
La Volontà di vivere non
è una cosa tra le altre: essa è la cosa, una forza
primordiale che comprende tutte le cose dell'universo e che alberga
in noi e ci fa agire in maniera deterministica, cioè inevitabile e
necessaria. L'agire degli esseri viventi è, non differentemente da
quello delle cose, determinato in partenza: essi non possono esimersi
dall'operare nella maniera in cui operano; in questo, non vi è
alcuna differenza tra l'agire dell'uomo e di ogni essere vivente e
l'agire del corpo celeste e di qualsiasi altro oggetto inanimato:
entrambi agiscono sospinti da una forza a cui non si possono
sottrarre. Il desiderio è cioè per la nostra volontà ciò che la
forza di gravità è per il nostro corpo: un impulso che determina
ogni nostro agire in maniera necessaria, e di fronte al quale ogni
nostra resistenza è vana. Pretendere di desiderare senza al contempo
cercare la soddisfazione del desiderio equivarrebbe a pretendere di
lanciarsi dal sesto piano senza spiaccicarsi a terra. Il libero
arbitrio, e cioè l'idea che noi possiamo decidere di non soddisfare
un nostro desiderio, è un'illusione legata al fatto che, nell'uomo,
la soddisfazione del desiderio può essere procrastinata, rimandata a
un momento futuro; finché rimaniamo sotto il dominio della Volontà
di Vivere, tuttavia, essa non potrà mai essere negata del tutto. Se,
per esempio, desideriamo un particolare modello d'auto, possiamo
stare sicuri che faremo di tutto per arrivare a possederlo; se
tuttavia le nostre condizioni economiche non ce lo permettono in quel
dato momento, rimanderemo il suo acquisto a un momento più
favorevole. Se infine, nonostante i nostri sforzi, il modello
prescelto rimanesse comunque fuori dalla nostra portata, ci
orienteremmo verso un modello inferiore. In ogni caso, il nostro
desiderio non rimarrà mai tale, ma cercheremo sempre in qualche modo
di soddisfarlo. Non ci possiamo sottrarre a questo meccanismo: il
desiderio è la forza di gravità della nostra volontà; esso plasma
il nostro agire e lo determina con assoluta necessità.
2.
Come Conosciamo: Spazio, Tempo, Causalità
Salvador Dalì, "La persistenza della memoria", 1931 |
La gnoseologia è,
in filosofia, la “dottrina della conoscenza”, che spiega come noi
conosciamo la realtà. La gnoseologia schopenhaueriana si lega alla
sua visione dell'universo tutto. La Volontà di vivere, infatti, ci
mette a disposizione delle strutture conoscitive che ci permettono di
percepire la realtà in maniera funzionale, e cioè in funzione degli
scopi per i quali essa ci ha “concepiti”. Così, i tre presupposti che ci permettono di percepire la realtà e di orientarci e
vivere nel mondo sono lo spazio e il tempo ("forme pure a priori della sensibilità" ereditate da Kant) e la causalità (l'unica preservata da Schopenhauer ta le 12 categorie dell'intelletto di Kant), che ci fa comprendere la connessione tra i fenomeni. Questi sono, in un certo senso, gli “algoritmi” del
software che ci permette di decodificare la realtà, gli strumenti
che noi abbiamo a disposizione per conoscere e agire nel mondo. I tre elementi sono inseparabili, perché ogni evento si svolge in
un rapporto temporale all'interno di uno spazio e secondo una relazione di
causalità. Come insegna Eraclito, infatti, tutto nel mondo si muove,
e nulla è fermo: anche la moneta che ho sul mio tavolo,
apparentemente immobile, in realtà si muove per effetto della
rotazione e rivoluzione terrestri, nonché dell'espansione
dell'Universo. Ma il movimento si svolge necessariamente da un punto
all'altro, quindi all'interno di uno spazio. Esso è, infine, sempre
causato: ha sempre qualcosa che lo inizia, e quand'anche – ipotesi
impossibile, a meno di ipotizzare una sostanza divina – si mettesse
in moto da sé, esso sarebbe comunque causa di se stesso. Per essere percepito, il mondo ha insomma bisogno di tutti e tre gli strumenti: se, per
esempio, togliessimo la causalità, come potremmo percepire il
passare del tempo? E come potremmo concepire un effetto che segue una
causa al di fuori di un continuum temporale? Solo in Dio, che è
eterno, causa ed effetto coincidono; ma questa nozione è per noi, per la
maniera in cui siamo fatti e in cui pensiamo, inconcepibile e
impensabile.
Come già spiegato
nel paragrafo precedente, tutto nell'universo è per Schopenhauer determinato, tutto
si svolge in maniera fissa e necessaria, secondo una rigida
consecutio causa-effetto. L'universo soggiace cioè a un meccanicismo
assoluto: esso è un complesso meccanicistico in cui causa ed
effetto si succedono in modo fisso, predeterminato e immodificabile,
come in una catena senza fine. Ne consegue che le strutture
conoscitive che abbiamo a disposizione per conoscere la realtà in
cui viviamo e per rapportarci ad essa, cioè spazio, tempo e causalità, risentono necessariamente
– in quanto per definizione tarate sulla configurazione del Mondo –
di questo meccanicismo. Esse sono cioè non solo il medium attraverso
cui conosciamo il mondo, bensì sono parimenti la catena che ci lega
ad esso, lo strumento della nostra schiavitù: finché non
travalicheremo i confini di questo “comune percepire”, finché
continueremo a percepire, a pensare ed agire attraverso gli strumenti che la Volontà di vivere ci mette a disposizione, noi continueremo a
funzionare come dei servi della Volontà stessa, e la
nostra esistenza si esaurirà in un'infinita concatenazione di
desideri da soddisfare, come nell'immagine del pendolo.
Perché la catena abbia senso e sortisca il suo
effetto, è necessario si possa percepirne i
distinti anelli: per questo, spazio tempo vanno a costituire il
principium individuationis della realtà, concetto che andiamo
subito a chiarire.
2.1
Il "Principium Individuationis"
E' molto
importante, nella filosofia di Schopenhauer, tener ferma la nozione
(già medievale) di principium individuationis (il “principio
di individuazione”, o “individuante”) che si lega comunque
strettamente a quanto appena detto. Cos'è, per Schopenhauer, il
principium individuationis? E', in sostanza, il criterio
attraverso il quale noi percepiamo i distinti oggetti del mondo; esso
descrive così l'attività della percezione secondo lo spazio e il tempo. Per svolgere le funzioni che la Volontà
ha pensato per noi, per entrare cioè a far parte di quella catena
deterministica di eventi che governa l'Universo tutto, noi dobbiamo
essere in grado di percepire gli oggetti – in senso lato -
distintamente l'uno dall'altro. Spazio e tempo si
incaricano di questo. Si prenda l'esempio della scelta del partner
sessuale. Per la sopravvivenza della specie, noi abbiamo bisogno di
cercare il partner giusto: quello più bello, sano e intelligente.
Ora, se non fossimo in grado di percepire, attraverso lo spazio e il tempo, la sua individualità e le sue caratteristiche
individuali, e cioè in
sintesi la sua idoneità per i nostri scopi (che si identificano con
quelli della Specie), la scelta non sarebbe per definizione
possibile, e ci troveremmo a figliare con il primo partner
disponibile, con buona pace del principio della selezione naturale.
Senza il principium individuationis, insomma, cioè senza
alcun criterio di differenziazione, non si riuscirebbe a distinguere
il bello dal brutto, il ricco dal povero, l'alto dal basso,
l'intelligente dallo sciocco. Non sarebbe possibile il desiderio per un oggetto particolare,
perché non solo ogni oggetto verrebbe a mancare di importanza nella
sua incapacità di distinguersi da ogni altro, ma perderemmo la
facoltà di percepire ogni oggetto del mondo, essendo gli oggetti
definiti in base ai loro attributi. Il mondo semplicemente cesserebbe
di esistere per noi, perché perderemmo la capacità di distinguere
tra noi stessi ed esso come oggetto “contenitore” di tutti gli
oggetti.
3.
Dal “Fenomeno” al “Noumeno”
Il principium
individuationis ci permette quindi di identificare in ogni
oggetto uno scopo per ogni nostro singolo atto di volontà, per ogni
nostro singolo desiderio: voglio quel particolare oggetto, mi piace
quella particolare persona ecc. E non avremmo alcuna difficoltà a
rispondere alla domanda “perché vogliamo quell'oggetto?”:
basterebbe descrivere la qualità o le qualità che ce lo fanno
piacere. Ma nell'ipotesi che il “filtro” del principium
individuationis venisse meno, resteremmo solo con la domanda
generale: “Perché vogliamo”? Cioè: al di là di questo o
quell'oggetto del desiderio, perché vogliamo? Perché siamo dominati
dal desiderio? Qual è lo scopo del nostro volere in generale? Il
superamento del principium individuationis ci connette dunque
con una domanda originaria, cruciale, la risposta alla quale ci
conduce a scoprire la Volontà di Vivere. Questa domanda non ha
infatti, al di fuori della filosofia, alcuna risposta: è la
filosofia (di Schopenhauer) l'unica a dirci che questo nostro volere
non ha scopo e senso, perché è la Volontà, la sostanza che ci
domina e di cui siamo fatti, a non avere scopo o senso, essendo essa
come abbiamo visto cieca e priva di un fine ultimo.
4. Dalla
Gnoseologia alla Metafisica all'Etica
Metafisica,
gnoseologia e etica sono in Schopenhauer legate in modo
indissolubile. La filosofia di Schopenhauer è infatti, al pari di
quella di Hegel ma in senso opposto, un vero sistema
filosofico, nel quale tutte le parti, e le branche della filosofia
che lo compongono, si legano inestricabilmente perché derivano da
una stessa realtà: la Volontà di Vivere.
Così, il prinicipium
individuationis, appena discusso, non ha solo una rilevanza per la teoria
della conoscenza, cioè una rilevanza gnoseologica: ne ha
anche una metafisica, perché ci fa capire per contrasto che al di là
del fenomeno, e cioè di ciò che noi percepiamo con i nostri sensi,
esiste qualcosa di più originario e di più reale. Esso riveste però
anche – soprattutto, oseremmo dire - una rilevanza etica. Il
principium individuationis, nel momento in cui ci vincola a una lettura "particolaristica" della realtà facendoci vedere la molteplicità laddove dovremmo vedere l'unità, ci
rinchiude nel compartimento stagno del nostro individualismo ed egoismo: sulla
scorta di esso, noi percepiamo, pensiamo e agiamo in quanto individui, non certo in quanto
parte di una fratellanza universale che non fa distinguo tra
caratteristiche fisiche, posizione sociale, simpatie e antipatie o
altro. Il principium individuationis è nella pratica la
radice dell'egoismo universale, perché ci programma – in quanto
soggetti che si trovano di fronte a oggetti del mondo - per
percepire particolari, differenze e distinzioni da cui trarre
profitto in senso individuale ed egoistico, a scapito degli altri
esseri, concepiti, al pari degli oggetti, come “altri da noi”,
come pedine da utilizzare per la nostra gratificazione personale. In
quanto tale, il prinicipium individuationis è la radice di
ogni male, perché la prima distinzione che esso ci permette di fare
è quella fra noi e gli altri, fra i nostri interessi e esigenze e
quelle di tutti gli altri: gli altri diventano allora essi stessi,
nel migliore dei casi, oggetti del nostro desiderio; in tutti gli
altri, strumenti da sfruttare o “concorrenti” da battere sul
mercato della soddisfazione dei bisogni.
Il principium
individuationis è il medium attraverso il quale la Volontà
opera in noi e nel mondo. E' lo strumento attraverso cui la Volontà ci rende dipendenti - da un punto di vista al contempo conoscitivo e comportamentale - dal mondo dei fenomeni. Il raggiungimento di una
dimensione di vera libertà ed eticità può verificarsi solo
in quanto si abbracci una nuova forma di consapevolezza, che superi le
strutture delle conoscenza fenomenica e che ci permetta di congiungerci con la
sottostante realtà della Volontà: per conoscerla e per negarla.
5.
Con l'Autocoscienza, l'Uomo si Scopre Volontà e la Volontà Scopre
Se Stessa
"The Matrix", 1999 |
5.1 Conoscere
la Volontà per Liberarsi da Essa: Come?
Quindi l'uomo può,
grazie a un'intelligenza che gli permette di riflettere su se stesso,
raggiungere l'autocoscienza, cioè la consapevolezza di essere
Volontà, di far parte di un Tutto irrazionale che ha come unico
scopo la propria medesima sopravvivenza e perpetuazione. Raggiungere questa
consapevolezza è il primo passo per pervenire alla salvezza, alla
liberazione dalla Volontà di vivere. Come possiamo dunque, in
concreto, raggiungere questa “rivelazione”? Non certo, dice
Schopenhauer, attraverso gli strumenti che la
Volontà ci dà a disposizione: questi infatti servono al contrario,
come abbiamo visto, a “incatenarci”, a vincolarci al mondo fenomenico e quindi a soggiogarci agli scopi
della Volontà, e a condannarci a una condizione di perenne sofferenza
fisico-esistenziale (la vita che conduciamo sotto la tirannia
della Volontà ci dà solo l'illusione della felicità, consistente
nella affatto temporanea soddisfazione di bisogni che però non
terminano mai, ma anzi si ripresentano e si rinnovano ad infinitum).
Dobbiamo invece guardare oltre i fenomeni, e cioè oltre ciò che si
presenta ai nostri sensi. Dobbiamo guardare al nostro interno, alle
sensazioni corporee; dobbiamo ascoltare quello che il nostro corpo ci
comunica in forma immediata.. Solo così scopriamo - al di là di quello che
vorrebbero farci intendere costruzioni teoriche e sublimazioni
poetiche – l'unica verità, e cioè che noi non siamo altro che
esseri desideranti, esseri non liberi ma dominati da istinti, pulsioni e passioni. Solo così scopriamo che siamo Volontà.
6. La
Liberazione dalla Schiavitù della Volontà: Arte, Amore per il
Prossimo, Nirvana
La ricetta buddista della felicità |
Quali sono gli strumenti per la nostra emancipazione dalla Volontà? Schopenhauer ne individua tre: a) l'esperienza estetica; b) la pietà; c) l'ascesi.
a) L'arte, e in
particolare la musica, rappresenta una forma di liberazione dalla
Volontà. Nel contemplare l'opera d'arte, noi ci eleviamo al di sopra
dell'istintualità, ci liberiamo dalle catene che ci fanno vedere
nella materia solo degli oggetti per il nostro desiderio istintuale.
Così, per esempio, l'apprezzamento estetico della nudità della
Venere del Botticelli non è in alcun modo legato all'attrazione
sessuale, ma esclusivamente al suo valore artistico, cioè ad aspetti formali come il
colore, le proporzioni, le linee e il volume, e al valore storico e spirituale dell'opera.
In particolare la
musica è per Schopenhauer la forma più alta di arte, perché essa può andare oltre il mondo fenomenico in quanto a differenza di tutte le altre forme d'arte (per esempio la scultura) non ha una base materiale e si trasmette indipendentemente dalla materia e dalla manipolazione di materiali. In quanto la musica trascende l'oggettivazione e la forma di conoscenza che vi si lega, essa è in grado di connettersi direttamente con la Volontà all'interno di noi, e di farci percepire in forma non mediata la realtà dell'esistenza.
b) La liberazione
dalla Volontà attraverso l'esperienza estetica è tuttavia qualcosa di passeggero che dura solo per il tempo della
fruizione dell'opera d'arte stessa. Un livello più alto di
liberazione ci viene offerto per Schopenhauer dall'impegno etico nel mondo, dalla
ricerca del bene altrui, dalla pietà verso gli altri. L'amore
rappresentato dalla pietà si distingue per esempio dall'amore
sessuale - che abbiamo visto essere un falso amore, perché desiderio che in quanto tale "oggettifica" il partner e ci porta a considerarlo un nostro possesso - in quanto esso non
pone al centro se stessi e il proprio godimento, ma il bene degli
altri esseri umani e viventi in generale: in virtù di questo, esso
ci permette di superare l'egoismo nei rapporti con il prossimo,
perché è amore che vuole il bene altrui, un agire che cerca
disinteressatamente il bene del prossimo, e del prossimo in quanto
tale e non come individuo particolare. Solo ridimensionando la
nostra individualità siamo in grado di aprirci agli altri in modo
solidaristico ed etico: lo spazio e il tempo che togliamo a noi si traduce in spazio e tempo che dedichiamo agli
altri. L'amore è reale solo quando è disinteressato, solo quando è
anche abnegazione. Ma la precondizione del raggiungimento di questo
stato è l'adesione a una nuovo modo di concepire il mondo, che non
si soffermi sui particolari e sulla considerazione degli altri come
“oggetti”, ma come parte di sé. Il raggiungimento della
consapevolezza che le nostre individualità sono delle illusioni
destinate a dissolversi nel momento in cui ci comprendiamo come parte
di un tutto, come manifestazioni particolari della Volontà di vivere, tende a farci considerare gli altri esseri viventi come degli
esseri che vivono in totale comunione con noi: la loro natura è la
nostra natura; il loro destino, il nostro destino. Facendo del male a
loro, facciamo del male a noi: una consapevolezza, questa, che nel
mondo dei fenomeni - quel “velo di Maya” che ereditiamo dalla
nascita – tende a sfuggire, perché la temporalità spesso
allontana la causa dall'effetto, e così proroga il momento della
nemesi, il momento cioè in cui le conseguenze dei nostri atti si abbattono su di noi e siamo chiamati a rispondere del male
fatto. Superata la dipendenza dal mondo fenomenico,
tuttavia - e spezzata quindi la catena dell'individualità e dell'individualismo -
arriviamo a comprendere che siamo tutti parte di un'unica Sostanza,
che siamo tutti uguali perché tutti accomunati nella realtà della
sofferenza universale.
c) La pietà
rappresenta quindi un momento di consapevolezza superiore. Ma essa
non è ancora, per Schopenhauer, completa liberazione dalla Volontà
di vivere, perché agisce pur sempre all'interno della vita, e
presuppone attaccamento, quindi passione. L'ascesi
rappresenta, per Schopenhauer, la finale e completa emancipazione
dell'uomo dalla Volontà. Essa è la totale negazione della
volontà, perché è estirpazione del desiderio di esistere, di
godere e di volere.
Come si raggiunge
l'ascesi? Il primo passo sulla via dell'ascesi si identifica – e
non potrebbe essere altrimenti – con la liberazione dalla fondamentale e più potente manifestazione della Volontà: l'istinto sessuale, cioè
l'impulso alla conservazione e propagazione della specie. La prima ed
essenziale componente dell'ascesi è quindi la castità perfetta.
Rinunciando al piacere sessuale, e negandone il desiderio, l'uomo
arriva ad attuare l'unico atto di libertà che gli è concesso:
quello che lo emancipa dalle catene della Volontà, all'interno della
quale non vi può essere infatti alcuna libertà. Solo riconoscendosi
come Volontà di vivere l'uomo può sottrarsi al suo potere,
negandosi come Volontà (noluntas); l'emancipazione dall'istinto sessuale è, in
questo processo, il passo principale e più importante.
Sottraendosi
alla Volontà, l'uomo raggiunge quello che il misticismo cristiano
definisce la Grazia,
quella condizione che si esprime nell'estasi quale scaturisce dalla
contemplazione di Dio, dall'unione con l'Altissimo. L'ateo
Schopenhauer guarda però soprattutto al buddismo: il Nirvana
buddista offre, con l'esperienza del Nulla,
l'equivalente dell'estasi cristiana. E il Nulla buddista non va
inteso come il niente assoluto, ma il niente relativo al mondo: una
negazione del mondo stesso. Così, il Nirvana è il nulla assoluto
solo dal punto di vista di chi vive nel mondo; ma per chi invece vede nel mondo un bacino di esistenza inautentica e un'infinita sorgente di sofferenza, esso rappresenta il
Tutto: un oceano di pace in cui si dissolvono i concetti di “io”,
di “soggetto” e “oggetto” e tutti gli antagonismi che ne
derivano, e nel la quale si scopre la quiete della propria unità con
il Tutto, dell'unità del Tutto.
Conclusione
La prospettiva illustrata dall'ascesi o Nirvana, cioè in sostanza una negazione della Volontà
che conduca in ultima istanza all'estinzione del genere umano, non
deve pertanto atterrire e deprimere. L'horror vacui che può
afferrarci a una simile prospettiva è per Schopenhauer solo un effetto del nostro
asservimento alla Volontà, di una mentalità da schiavi che ci
spinge a chiederci che ne sarà di noi una volta persa la crudele ma
rassicurante potestà del padrone. Il vero nulla è – nel pensiero di Schopenhauer come nel buddismo - quello di un mondo basato
sull'illusione, di un mondo sul quale si estende quel "velo di Maya"
che ci fa apparire importante ed essenziale ciò che non lo è
affatto, e nel quale noi siamo servi inconsapevoli delle nostre effimere
passioni. La libertà da questa condizione va vista come la realtà più reale,
e il suo annuncio come la verità più vera.
(2) “Conosci te
stesso”, recitava l'iscrizione nel tempio di Apollo a Delfi. Questa
massima, centrale nella filosofia socratica, descrive il significato
della parola “autocoscienza” e rappresenta probabilmente la più importante
direttrice del pensiero filosofico da Socrate in poi, al punto da
costituire il nucleo fondante della filosofia moderna a partire da
Cartesio, e di tanta filosofia contemporanea.
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