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Il
compromesso in politica sembra essere non solo una cosa accetta,
bensì addirittura auspicabile. Il compromesso viene implicitamente
considerato un sintomo di quella pluralità di idee che dimostrerebbero
che la politica funziona. E' proprio per far stare assieme tante
anime, in modo che ognuna abbia la sua, che si è legittimata la
pratica del compromesso. Il compromesso è in ogni democrazia un
additivo diluente, un punto d'approdo che accontenta tutti tranne i
comuni cittadini.
Come
tutte le pratiche che mantengono all'origine un'accezione negativa
però (la persona “compromessa” è, per il vocabolario italiano,
una persona sputtanata) il loro adattamento a contesti positivamente
costruttivi (come, nello specifico, un accordo politico che risolve una questione) avviene sempre in modo condizionato: è frutto esso
stesso di un compromesso. E in effetti, il compromesso in politica è, nel migliore dei casi,
acqua calda zuccherata; nel peggiore, l'esito di un ricatto.
Se
si approfondisce l'analisi del concetto, si vedrà infatti che il confine che separa il compromesso dal ricatto può essere piuttosto labile (o ricco di andirivieni). Alla base c'è lo scambio: il compromesso
implica l'“io concedo qualcosa a te affinchè tu conceda qualcosa
a me”; il ricatto implica l'“io faccio qualcosa per te affinchè
tu non faccia qualcosa contro di me”. Quante volte, in politica, si
scambia per compromesso quello che in realtà è un ricatto? Sicuramente, in quel mercimonio fra destra e sinistra che è stata la politica italiana degli ultimi 20 anni, il rischio di confusione fra i due concetti si riduce di parecchio.
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