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Ormai, la nostra società ci ha portati a considerare il
linguaggio come una cosetta inutile e ininfluente, retorica fatta a
posta per scansare l'azione. E non è un caso che ciò risulti tanto
più vero in una realtà in cui chi dovrebbe agire tende a
soppiantare l'opera con il temporeggiare interlocutorio e con una
retorica più o meno seducente.
La classe politica, certo, ma anche i vertici imprenditoriali, entrambe avviluppate nella retorica del “fare”, che è appunto solo retorica. Naturalmente, lo strumento che ha amplificato a dismisura questa cattiva abitudine (e i suoi effetti) è stato il talk show, che ha sostituito le vecchie tribune politiche all'insegna del cicaleccio.
La classe politica, certo, ma anche i vertici imprenditoriali, entrambe avviluppate nella retorica del “fare”, che è appunto solo retorica. Naturalmente, lo strumento che ha amplificato a dismisura questa cattiva abitudine (e i suoi effetti) è stato il talk show, che ha sostituito le vecchie tribune politiche all'insegna del cicaleccio.
Proprio nell'ambito politico, il linguaggio svolge il suo ruolo più
importante, che è quello del nascondimento e del camuffamento
sofisticheggiante. Inoltre, il “meta-linguaggio” politico, sempre
intriso del simulacro della concretezza nel dire cose che non fa
tanto quanto, per converso, fa cose che non dice, serve proprio a donare
quell'impressione di concretezza che giustifica l'assegnazione di
ruoli, incarichi e mansioni affatto pretestuosi. Il
politichese pertiene alla parte politica, e nasconde il nulla
di quello che si ha da dire; il burocratese invece pertiene alla
parte operativa e amministrativa, e nasconde il nulla di quello che
si fa. Il primo – quello politico - è il linguaggio del potere; il
secondo – quello burocratico - è il potere del linguaggio, ma sono
in fondo l'una e medesima cosa, perché incarnate dalla stessa classe
dirigente.
Il linguaggio quindi assolve - tra gli altri - allo scopo di donare
l'illusione della concretezza a quello che concreto non è. Questo linguaggio
serve il clientelismo più becero e parassitario, l'attribuzione
delle deleghe più assurde e le branche di spoil system più
paradossali. Smascherarlo richiede conoscenza su come funzionano le
cose e su come il linguaggio le permea.
Gli esempi saltano all'occhio se si riflette sull'assurdità della
controparte operativa alla quale le varie dizioni alludono. Per i
grandi eventi come i G8, l'Expo ecc., ad esempio, c'è l'“attivatore
di eventi”, che si distingue graficamente da un altro incarico da
grandi eventi, quello del “soggetto attuatore”. In Parlamento,
tempio della fuffa linguistica, c'è poi il “ministro per
l'attuazione del programma”, dal quale apprendiamo che i governi
non sono in grado di attuare il proprio stesso programma senza la
presenza di qualcuno che, all'interno del governo, sovrintenda alla sua attuazione. E gli esempi si sprecano.
“Attuazione”, attivazione”, “attivatore”, “attuatore”:
tutte parole improntate al decisionismo, alla concretezza
dell'azione, ma che coadiuvano il costume di un peculato
onnipresente e a norma di legge. E' il “linguaggio del potere”
che diventa “potere del linguaggio”, e viceversa.
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