giovedì 2 gennaio 2014

LINGUAGGIO DEL POTERE E POTERE DEL LINGUAGGIO

(Difficoltà: 4,2/5)

La Bonino, Radical-parolaia
Ormai, la nostra società ci ha portati a considerare il linguaggio come una cosetta inutile e ininfluente, retorica fatta a posta per scansare l'azione. E non è un caso che ciò risulti tanto più vero in una realtà in cui chi dovrebbe agire tende a soppiantare l'opera con il temporeggiare interlocutorio e con una retorica più o meno seducente.
La classe politica, certo, ma anche i vertici imprenditoriali, entrambe avviluppate nella retorica del “fare”, che è appunto solo retorica. Naturalmente, lo strumento che ha amplificato a dismisura questa cattiva abitudine (e i suoi effetti) è stato il talk show, che ha sostituito le vecchie tribune politiche all'insegna del cicaleccio.
Proprio nell'ambito politico, il linguaggio svolge il suo ruolo più importante, che è quello del nascondimento e del camuffamento sofisticheggiante. Inoltre, il “meta-linguaggio” politico, sempre intriso del simulacro della concretezza nel dire cose che non fa tanto quanto, per converso, fa cose che non dice, serve proprio a donare quell'impressione di concretezza che giustifica l'assegnazione di ruoli, incarichi e mansioni affatto pretestuosi. Il politichese pertiene alla parte politica, e nasconde il nulla di quello che si ha da dire; il burocratese invece pertiene alla parte operativa e amministrativa, e nasconde il nulla di quello che si fa. Il primo – quello politico - è il linguaggio del potere; il secondo – quello burocratico - è il potere del linguaggio, ma sono in fondo l'una e medesima cosa, perché incarnate dalla stessa classe dirigente.
Il linguaggio quindi assolve - tra gli altri - allo scopo di donare l'illusione della concretezza a quello che concreto non è. Questo linguaggio serve il clientelismo più becero e parassitario, l'attribuzione delle deleghe più assurde e le branche di spoil system più paradossali. Smascherarlo richiede conoscenza su come funzionano le cose e su come il linguaggio le permea.
Gli esempi saltano all'occhio se si riflette sull'assurdità della controparte operativa alla quale le varie dizioni alludono. Per i grandi eventi come i G8, l'Expo ecc., ad esempio, c'è l'“attivatore di eventi”, che si distingue graficamente da un altro incarico da grandi eventi, quello del “soggetto attuatore”. In Parlamento, tempio della fuffa linguistica, c'è poi il “ministro per l'attuazione del programma”, dal quale apprendiamo che i governi non sono in grado di attuare il proprio stesso programma senza la presenza di qualcuno che, all'interno del governo, sovrintenda alla sua attuazione. E gli esempi si sprecano.
“Attuazione”, attivazione”, “attivatore”, “attuatore”: tutte parole improntate al decisionismo, alla concretezza dell'azione, ma che coadiuvano il costume di un peculato onnipresente e a norma di legge. E' il “linguaggio del potere” che diventa “potere del linguaggio”, e viceversa.

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