domenica 30 dicembre 2012

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9993

BASTA CON IL GIORNALISMO-LETTERATURA!

Se c'è una cosa che mi fa incazzare, è l'eccesso di letteratura che si respira nei nostri giorni anche nel giornalismo. Il giornalismo dovrebbe essere descrittivo, non evocativo. E ciò in onore e nel rispetto delle tematiche che affronta e del suo intento cronachistico. Tutto il resto è fare della letteratura da parte di chi letterato non è, indebita affettazione degli eventi. Sovente, è squisitamente una questione di stile, in buona parte assimilabile ad un uso della paratassi talmente eccessivo da diventare impressionismo, come in tanta letteratura dei giorni nostri.

"Impressionismo" paratattico
Cos'è la paratassi? Sostanzialmente, è uno stile di scrittura che si basa sull'uso di proposizioni principali, escludendo dall'articolazione del periodo le subordinate, le proposizioni secondarie. Così, un periodo del tipo (sto improvvisando): “Percepii nell'aria l'odore che si avverte di solito negli ambienti occlusi nei quali dei lavori di imbiancatura siano stati da molto interrotti, vuoi per negligenza o per improvvisa mancanza di risorse, dal momento che, si sa, il senso olfattivo è acuito da uno stato di tensione e di allerta come quello in cui ero io in quel momento” diventa: “Percepii nell'aria un odore. Quello che si avverte negli ambienti occlusi. Quando dei lavori di imbiancatura siano stati interrotti. Negligenza. Improvvisa mancanza di risorse. Chissà. Il senso olfattivo è infatti acuito da uno stato di tensione. E di allerta. Quello in cui ero io. In quel momento.” Come si capisce a pelle, la seconda versione ha vocazione più inconfondibilmente letteraria, anche se solo nel senso della cattiva letteratura che si fa ai giorni nostri. Qui siamo a dire il vero già oltre la paratassi (siamo cioè alla paratassi spinta all'eccesso, non solo un semplice "eccessivo uso" della paratassi). Perchè un simile stile di scrittura, più che definirlo “impressionistico", sarebbe più opportuno chiamarlo “rapsodico” o “robotico”, se non propriamente “schizofrenicamente dissociato”. 
Un simile modo di scrivere sarebbe giustificabile solo per puntualizzare (letteralmente, nel senso di “mettere il punto”) elementi di un episodio, per motivi di drammatizzazione o climax, o semplicemente a beneficio di quel semplice descrittivismo minuzioso nel quale indulge molta letteratura femminile contemporanea. Insomma, va usato con criterio, anche in letteratura. Non ce ne accorgiamo, ma anche noi facciamo nostro questo stile quando parliamo nella vita di tutti i giorni. Sempre però in situazioni determinate: per es. quando rincariamo, con la loro enumerazione separata, la dose emotiva che ogni singolo elemento può apportare al nostro discorso, magari instaurando un climax (“Mi ha detto che sono aggressivo. Lei. A me. Di notte. Sapendo che fatico a prendere sonno. Lei che è addirittura violenta. Con tutti.”) 

Paratassi e ipotassi
Se è vero che un eccesso di subordinate fa innervosire perchè è difficile da seguire e denota forse una superbia intellettuale da parte di chi scrive (esempio ne sia lo stile di molti filosofi tedeschi dell'Ottocento), d'altra parte la paratassi, soprattutto nella sua interpretazione estrema, può nascondere la difficoltà mentale nell'articolazione di un discorso ragionato. Chi scrive con ipotassi (il contrario della paratassi) ha magari una alta considerazione di sé, ma mostra anche una alta considerazione dei suoi lettori, che ritiene capaci di seguirlo nel suo labirinto di interconnessioni causali, finali e temporali. D'altra parte, colui che utilizza lo stile di scrittura sopra esemplificato, può apparire forse più umile, ma, superato un certo limite di decenza stilistica, non mostra una grande considerazione per il suo lettore, e dà l'impressione di volerlo accompagnare per mano come un infante.
Come ho scritto all'inizio, ciò è tanto più grave in un contesto giornalistico, dove la letteratura non dovrebbe trovare posto, a meno di non voler dare benzina al fuoco di quella critica che vuole certi giornalisti essere dei letterati frustrati. Quando è cronaca, il giornalismo dovrebbe fornire una descrizione del fatto avulsa da ogni caratterizzazione letteraria ed emotiva: il suicidio di una donna per amore contiene già in sé una forte carica emotiva senza che si debba resuscitare lo spettro letterario di M.me Bovary. Quando è commento, dovrebbe guidare con austerità e relativa freddezza il lettore alla comprensione delle cause del fatto, e delle sue possibili conseguenze.
Pezzi di pessimo stile giornalistico sono gli editoriali del commentatore di sondaggi Ilvo Diamanti su “Repubblica”. Eccone un esempio:
“Fini e Casini, postfascisti e neodemocristiani. Miracolati. Sdoganati e recuperati da lui, nei primi anni Novanta. Quad'erano gli esemplari sopravvissuti di una specie in via di estinzione. Destinati a scomparire. Oppure a finire fuori gioco. Emarginati ed esclusi. Berlusconi ha offerto loro un ruolo di primo piano. E loro, in cambio, hanno tramato per la sua successione. Fino ad abbandonarlo. Lasciandolo solo. Come ha fatto gran parte dei parlamentari del Pdl e del centrodestra. Lo scorso ottobre, dopo la condanna del Tribunale di Milano a suo carico per frode fiscale, nel processo Mediaset. Berlusconi. Si è sentito vulnerabile. Ed è tornato. E' sceso di nuovo in campo. Meglio, in campagna elettorale. Anzitutto e soprattutto in televisione. Abituato com'è a considerare la tivù la grande madre dell'Italia media. L'Italia dei media.” (“Repubblica”, 24 dic. 2012). Certo qui è un caso di totale incapacità a scrivere più di quanto non sia la volontà di infilare della letteratura dove non ce ne può stare, ma tant'è.
La prossima volta che leggete qualcosa, qualsiasi cosa, fateci caso!


venerdì 21 dicembre 2012

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9994

 FENOMENOLOGIA DELL'"ATLETA DI STRADA"

Se c'è una cosa che mi fa incazzare questa è la propensione della gente a farsi del male anche quando crede di farsi del bene, e mi spiego.
Ogni tanto vado a correre per tenermi in forma. Le aree prescelte sono quelle collinari, o comuque quelle il più possibili isolate dal traffico e il più possibile immerse nella natura. La corsa, a piedi o in bicicletta, deve essere un'occasione per stabilire un contatto con la natura, che in cambio ci dà ossigeno fresco da respirare.
Come per l'acculturamento, anche l'attività fisica ha un prerequisito essenziale: la solitudine. Vale a dire che, tanto quanto lo studio è un rapporto fra te e il libro che richiede il silenzio quasi ascetico di un ambiente isolato da interferenze umane, così anche l'attività fisica produce i suoi ricercati effetti se eseguita lontano da quegli elementi che denotano nel nostro tempo, ormai senza eccezioni, la presenza umana: il trambusto veicolare e lo smog.
Se si perde questo fattore di “armonia con la natura”, allora si perde di vista anche il significato dell'attività fisica, che diventa quindi più un bene che un male.
Quello a cui voglio arrivare è una fenomenologia di quello che chiamo “l'atleta di strada”, cioè di coloro che, sempre più frequentemente, fanno attività fisica per le strade delle nostre caotiche e puzzolentissime città. Mi avvio a dissezionarne le caratteristiche:

  1. l'atleta di strada è, per sua disgrazia, un tipo socievole fino all'estremo, un “sociopatico all'incontrario”: non tollera la distanza fra sé e i suoi simili nemmeno in quei momenti che la richiederebbero. Egli studia nelle affollatissime aule studio delle università, con il risultato che: a) deve fare pausa al bar ogni volta che uno dei suoi 100 amici glielo propone; b) deve dribblare mentalmente sghignazzi, sussurri, parlottii e confabulae, moltiplicando il già di per sé erculeo sforzo dello studio. Quando fa movimento, o lo fa nel puzzo di una palestra dove regna l'atmosfera techno di una stazione spaziale e l'eco di un capannone di tessitori cinesi clandestini, o lo fa immerso nella folla cittadina, fra cantieri che fanno rimpiangere i ruderi del dopoguerra, e code di metallo che si srotolano fra un semaforo e l'altro all'ora di punta.
  2. Questa “coazione alla socialità” si ammanta del retrogusto di una vanità mal riposta, veicolata da un unico pensiero sul quale l'“atleta di strada” rimugina senza manco accorgersene: “Voi umili mortali indaffarati in un lavoro che fa schifo e intrappolati nelle vostre gabbie di lamiera ruotate, io qui libero come il vento a mantenermi in forma.” In realtà, gli autisti sono protetti dallo smog che essi stessi producono, e che l'“atleta di strada” respira a pieni polmoni e con cicli di respirazione accelerati. Forse è solo una mia fisima, ma questo mi sembra il prodotto di un fenomeno impostosi negli anni '80: la vanità esteriore che sequestra un'attività fisica e una cura del corpo consumerizzate. L'attività fisica non più come perseguimento della salute, ma come ricerca di un corpo più snello e più scolpito (con effetti di stravolgimento del senso, come nel culturismo ipersteroidizzato). Ma comunque chissà mai che, trotterellando in bella vista e con incedere atletico sulle cementificate promenade cittadine, non si riesca pure a cuccare.
  3. Anche l'“atleta di strada” deve lavorare. Il risultato? Che l'attività fisica ha spesso luogo quando il sole è già calato sopra la città, le strade sono piene di smog accumulato durante tutta la giornata, e le poche piante presenti hanno ormai cessato di emanare ossigeno e cominciano a sputare fuori anidride carbonica. Se mettiamo nel mix pure l'effetto serra, l'atmosfera assume consistenza giupiterina. Siamo all'apice della follia.

Conclusione polemica (e non potrebbe essere altrimenti)

Chi svolge attività fisica in questo modo dovrebbe riflettere sul fatto che si consegna a un'attività che già di per sé impone sacrifici, e che ottiene poi l'effetto contrario; in pratica, si sforza di farsi del male credendo di farsi del bene. Gli antichi dicevano “mens sana in corpore sano” intendendo così dire che un corpo sano aiuta a pensare meglio. Invertendo e parafrasando, si potrebbe dire che la stoltezza del comportamento dell'"atleta di strada" lo fa stare fisicamente male (nel mentre che crede di fare il proprio bene). 

Anche se non siamo in estate, ecco il mio tormentone: "La prossima volta, fateci caso"!


"Magari tu ci hai le gambe più lunghe, però io in cambio sono più intelligente."

martedì 11 dicembre 2012

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9995

 "NON ANDATE A VOTARE E STATEVI ZITTI". LA "DEMOSCROTIZZAZIONE" DELLA CULTURA

Se c'è una cosa che mi fa incazzare questa è la democratizzazione della cultura, che io chiamo la demoscrotizzazione della cultura, e i suoi effetti.
L'equivoco sotteso a questo sviluppo è lo stesso che fa da base alla democratizzazione della politica, che noi chiamiamo democrazia. In realtà, già la parola "democratizzazione" contiene in radice la parola democrazia, per cui sembra che il mio discorso sia una tautologia, un circolo logico e anzi
semplicemente verbale. Ma la scelta delle parole non deve sviare dal fondamento di quello che voglio dire. Diciamo allora, per meglio capirci, che la democrazia è la politica messa a disposizione del popolo, cioè di tutti. Non certo, ovviamente, nel suo aspetto operativo (il "fare" la politica, che richiede conoscenze tecniche), ma solo per quanto concerne la scelta dei nostri rappresentanti politici, che poi andranno a prendere decisioni su nostro mandato. Ma qui scatta l'equivoco, basato su una mancanza di coraggio degli addetti ai lavori: il coraggio di dire che anche chi sceglie i futuri governanti deve avere gli strumenti per capire cosa andranno a fare, e se ne saranno in grado. La democrazia nasce così zoppa, perchè da una parte il popolo è sovrano, dall'altra non si può porre la problematica dell'inadeguatezza delle masse nel scegliersi i rappresentanti politici senza rischiare di minare un fondamento della democrazia moderna: il suffragio universale.

"Libertà di Voto" e "Libertà di Parola": Tutt'un Equivoco

Che il gioco democratico spalanchi le porte con una frequenza impressionante a populisti e a estremisti di ogni sorta da una parte, o a semplici mediocri dall'altra, è semplicemente il cerchio che si chiude: il popolo tende a votare chi gli assomiglia, cioè personalità viscerali od omini senza arte nè parte. E' destino della democrazia disegnare ad ogni occasione un movimento circolare che sancisce la regola della fungibilità della classe politica rispetto al popolo che la elegge. In parole semplici, come una regola del successo televisivo è quella di scegliere i propri personaggi non tra le persone in gamba, ma tra quelle con cui lo spettatore medio possa identificarsi, così la politica sceglie i propri rappresentanti non tra le persone tecnicamente in gamba, ma il popolo sceglie direttamente (e senza la mediazione esercitata in tv direttore di rete) coloro che sono simili a loro. Tutti possono sostituire tutti ("fungibilità"), e il merito non ha nessun ruolo. In politica la mentalità troppo "tecnica" o "ragionieristica" non accende gli animi, così come in tv la personalità troppo brava e brillante dà fastidio e suscita invidia tra gli spettatori. Il risultato è che chiunque potrebbe andare a fare in tv quello che fa Paolo Conti, così come chiunque potrebbe andare a fare in Parlamento quello che fa Enrico Boselli. Per questo è giusto dire che la democratizzazione della cultura non è per nulla dissimile alla democratizzazione della politica. Per carità, qui ci si muove su un terreno sdrucciolevole, perchè quando si contesta il suffragio universale si rischia di dare l'impressione di dire che non tutti debbano avere diritto di voto. In realtà, tutti devono avere diritto di voto (politica) così come tutti devono avere diritto di parola (cultura). Ma questo non ci impedisce di dire che non tutti possono fare politica e non tutti possono fare cultura. se uno di quelli che vota i populisti o gli incompetenti si mette in testa di esercitare la politica, una democrazia sana è quella che pone dei paletti per impedirglielo. Se uno che non ha istruzione su ciò di cui parla ne discute in pubblico (e cioè "fa" cultura), una cultura sana (nel contesto di un principio di libertà di parola correttamente inteso, e cioè facente capo a una democrazia sana) glielo deve impedire. Ma attenzione: l'elemento "pubblico" qui è determinante: se uno massacra shakespeare tra le mura di casa sua, non "fa" cultura, ma solo chiacchiera; se uno massacra Shakespeare in un convegno di dotti, con giovani studenti a pendere dalle sue labbra, allora qui c'è l'elemento del pubblico e costui "fa" cultura. Allo stesso modo, non è affatto vero che l'unico modo per fare politica sia quello di entrare nelle stanze del potere: il semplice voto, che ha naturalmente rilevanza "pubblica", è un "fare" politica. Conseguentemente, quanto detto sopra a proposito del politico praticante va esteso anche al semplice votante.

L'Anarchia Strisciante

Ad ogni modo, politica e cultura sono due facce di una stessa medaglia. Se si capisce questo, si è sulla buona strada. Dire che tutti devono avere diritto di voto equivale a dire che tutti devono avere accesso agli strumenti per votare in modo consapevole, cioè il discorso politico incorpora il discorso culturale. Allo stesso modo, dire che tutti hanno diritto di parola equivale a dire che tutti devono avere accesso agli strumenti della cultura e alla scuola che li distribuisce, secondo un principio egalitario correttamente inteso (cioè, anche qui, facente capo a una democrazia sana), cioè il discorso culturale incorpora il discorso politico. "Diritto di voto" non deve significare il diritto di segregare il paese per 5 anni nella prigione di inefficienze e illegalità scaturite da una scelta iniziale sbagliata, così come "diritto di parola" non significa dare a tutti carta bianca per sequestrare la cultura nelle segrete di un "opinionismo" fallace, sterile e fine a se stesso. L'egalitarismo democratico inteso nel senso che “tutti possono fare e dire tutto”, a prescindere dalla preparazione e dalla condivisione di strumenti propedeutici a un corretto esercizio di tali diritti, è solo una propaganda democratica che nasconde l'anarchia: comprensibile in un periodo nel quale la democrazia doveva ancora imporsi, ma ingiustificabile per una democrazia che si vuol dire matura. L'equivoco sottostante la democratizzazione della politica porta ad esiti che tutti conosciamo e abbiamo conosciuto negli ultimi 20 anni. L'equivoco sottostante la democratizzazione della cultura può avere effetti altrettanto devastanti. Per chi voglia a tal proposito farsi 4 risate, legga l'ultimo paragrafo.

"Calmierare i Bollenti Spiriti"

Su una rete televisiva locale della mia città, c'è a ora di pranzo una trasmissione di cui non faccio il nome per non circostanziare troppo. Argomenti:
attualità politica e cronachistica. Ospiti: prevalentemente politici veneti. Struttura della trasmissione: prevalentemente un "dare la parola" telefonicamente a chi sta a casa (in genere casalinghe e pensionati, perchè la trasmissione è ad ora di pranzo), per stimolare così la discussione in studio. Chi la vede, subisce una sensazione simile alla nostalgia, e mi spiego. Chi può dire se la nostalgia è cosa buona o cattiva? Certo si piange sui bei tempi andati, ma lo si fa con un gusto dolce in bocca e nella mente. Allo stesso modo, vedendo questa trasmissione, si piange sui brutti tempi arrivati, ma lo si fa sbellicandosi dalle risate. A onor del vero, si "piange sui brutti tempi arrivati" non direttamente, ma ascoltando la mediocrità colpevole di persone che sono assieme l'effetto e la causa dei tempi che stiamo vivendo. E' il Veneto "che si è fatto da solo" quello che si ascolta in quella trasmissione dalla bocca delle persone in studio e da casa. Il risultato di quest'opera autopoietica? Il lettore giudichi da sè. Queste sono alcune delle cose che sono uscite da quella trasmissione, e che io ho volenterosamente raccolto (miei commenti tra parentesi): 
1) “Bisogna sconfiggere il terrorismo occupando la striscia di Garza.” (bastasse un semplice bendaggio per sanare certe ferite..."
2) “E' brutto dover constatare il progressivo barbarimento della politica” (e perchè no “giovannamento” o “elenamento”?).
3) “Bisogna essere uniti nella lotta contro il turismo!” (forse "terrorismo"?)
4) “So che mi tirerò addosso qualche inamicizia, ma posso fare una critica a quei due ospiti della sinistra? Fate schifo!!” (Quel che si dice una critica costruttiva...)
5) “E' tutto un magna-magna. Svergognatevi!” (Ssi shai sragione, schiedo svenia.)
6) “Cerchiamo di calmierare i bollenti spiriti, qui, eh?!” (Lo dicevo io che in tv si parla troppo di economia...)

Conclusione Polemica (e non potrebbe essere altrimenti)

Vedete allora qual è la vera differenza tra noi e gli americani? Che loro possono dire "I have a dream..." parlando del loro futuro; noi possiamo dire "I have a nightmare" parlando della merda di presente in cui siamo impelagati.
La prossima volta, FATECI CASO.

lunedì 10 dicembre 2012

L'INVIDIA: ANCHE SE LA CONOSCI, NON LA EVITI

Gli effetti che l'invidia può avere in termini personali (l'autostima, per es.) e sociali (penso alla possibilità di un'organizzazione "meritocratica" della società e del lavoro), sono tra i più gravi. Eppure, il rischio per chi la denuncia è quello di dare l'impressione di credersi un genio incompreso. Non ho mai tollerato molto chi parla della stupidità altrui, perché ho sempre trovato che questo rinvii implicitamente allo snobismo di una superiorità intellettuale di chi scrive.