Sono più d'uno i casi di ragazzi suicidi a causa del cyberbullismo (qui un'esempio) cioè il bullismo praticato fra coetanei utilizzando i social network. Mi sovviene un caso analogo, certo tra i più tristi, di una ragazza che aveva espresso su Facebook la sua intenzione di suicidarsi. Tra le varie reazioni spiccarono quelle di chi non la prese seriamente e se ne prese gioco e di coloro che addirittura la incitarono al gesto. Ora, tutti sanno che, se una persona vuole farla finita, lo fa e basta, e poi al limite spiega le sue ragioni in un messaggio. Se uno invece prende tempo si rivolge a qualcuno manifestando questa sua idea, lo fa apposta per esserne dissuaso e per trovare stimoli e parole di incoraggiamento. Quindi queste persone sono corresponsabili (tutte assieme, e ciascuno per sé), della morte di quella persona che, se i commenti fossero stati diversi, sarebbe ancora viva.
Se consideriamo che questi istigatori al suicidio erano degli “amici 2.0” ,
si capisce bene l'urgenza di definire bene il concetto di amicizia
nell'era digitale.
Quella cosa strana chiamata "amicizia"
Internet non ha
inventato nessun male. Semplicemente, esso ha amplificato, per via
dell'accessibilità senza barriere di ogni contenuto, fenomeni
preesistenti. Ciò vale per la pedofilia, per l'assuefazione
sessuale, per la solitudine alienata, per lo stalking, e anche per il
bullismo. Non è una differenza di natura, ma di grado, nel senso che
questi disdicevoli comportamenti rimangono quelli di sempre nella
loro natura, ma internet fornisce mezzi inediti e più potenti per
la loro perpetrazione.
La parola amicizia è sempre stata
soggetta all'equivoco. Infatti, tutti i tipi di rapporti
interpersonali hanno una ragione d'essere che li identifica: il
rapporto di lavoro (ragione economica), il rapporto fra
sessi/coniugale (ragione sessuale), il rapporto parentale (ragione di
sangue/genetica), ecc. Per tutti i rapporti interpersonali, è facile
definire la natura sulla base di certi elementi chiaramente
individuabili e giustificabili. Per tutti, tranne l'amicizia. Quello di "amicizia" è un concetto oscuro, difficile da fondare (se non
ricorrendo al generico concetto di “socialità”, che include
pressochè ogni comportamento umano e che spiega tutto e niente).
L'amicizia va e viene, spesso senza lasciare tracce. A volte, ci
accorgiamo che non era mai nata, che era un'illusione. Altre volte, l'amico ci
tradisce, e noi ce ne facciamo facilmente una ragione e passiamo ad
altro (anzi, ad altri).
Perchè spesso quella che si crede
amicizia altro non è se non semplice “frequentazione”. Questo è
un dato di fatto pre-tecnologico. Nell'era dell'internet 2.0, poi, è
del tutto normale che questo elemento di incertezza si amplifichi, e
che il concetto di amicizia si sovrappunga sempre più con quello,
appunto, di “frequentazione”. In questo senso, può benissimo
essere rimpiazzata dai social network. Verrà il momento – e in
parte ciò è già cosa fatta – nel quale l'amicizia reale e quella
digitale non saranno più distinguibili, se non per il contatto
fisico, che però si riduce a singole parti di una realtà, esteriori
ed eterogenne rispetto all'essenza dell'amicizia, che si deposita
nella persona (es.: mi incontro con l'amico “fisicamente” perchè
mi deve dare un libro; mi incontro con gli amici al bar perchè è
un'occasione per bere, o perchè mi piace il locale ecc.) In un certo
senso, l'amicizia “reale” sarà sempre irriducibile a quella
digitale, ma solo per elementi che si potrebbero definire “di
contorno”.
La rivincita del reale
Ma non intendo qui sottovalutare
l'importanza di una frequentazione fisica dell'altro. La
comunicazione scritta (quindi a distanza) ha dei suoi limiti:
- Innanzitutto, per quanto la si possa semplificare, popolarizzare e sottoporre a una traslitterazione dal parlato, la comunicazione scritta sottosta sempre a un criterio di codificazione. La sua codificazione si identifica innanzitutto con il semplice fatto che la comunicazione scritta poggia su una convenzionalità fatta di simboli e regole grammaticali. Ma la codificazione pertiene anche – fatto, questo, un po' più complesso - a una tradizione culturale, che le dà regole di condotta che non trovano applicazione nella comunicazione orale. Ci sono cose che, se nella comunicazione orale hanno una loro collocazione e senso, nella comunicazione scritta possono risultare incerte, inopportune o addirittura fonte di gravi equivoci. Purtroppo, la larghissima (e crescente) diffusione di Facebook fa sì che il numero di utenti che hanno a disposizione questi strumenti culturali si assotigli sempre di più a vantaggio di chi non ne dispone. Ne consegue che lo scarto fra parola scritta e parola parlata si riduce sempre di più, e ognuno tende a scrivere “come parla”. Ma ciò non è cosa buona, perchè la comunicazione scritta deve necessariamente sottostare a un registro relativamente alto, e ciò indipendentemente dal mezzo che la veicola. Infatti, essa deve far fronte a deficienze irrecuperabili della stessa, che sono in pari tempo le virtù di un contatto reale con l'altro (la presenza reale, vedi punto seguente). Questa “superiorità” della parola scritta non esprime snobismo intellettuale, ma semmai l'esatto contrario: sensibilità orientata al rispetto della persona.
- La comunicazione scritta non ammette la presenza reale, e quindi il veicolo comunicativo del corpo. Gli “emoticons” sopperiscono in parte a questa mancanza, stilizzando l'intenzione emotiva che sta dietro un pronunciamento. In questo modo, la portata di una frase come: “Sei proprio da rinchiudere” cambia radicalmente se accompagnata o meno, per esempio, da una faccina che sorride. Ma, naturalmente, questi espedienti grafici non bastano a sostituire le infinite sfumature dell'espressività facciale, della gestualità corporea della persona, del tono di voce ecc.
- Laddove ciò che si dice può essere relativizzato al momento in cui lo si dice (un insulto può essere uno sfogo irriflesso di cui poi ci si pente), la parola scritta è fatta per rimanere e per lasciare un'impressione duratura e definitiva. Laddove è pratica comune quella di leggere e rileggere il messaggio prima di postarlo, capita al contrario con molta meno frequenza che ci si fermi a riflettere su ciò che si sta per dire, quando si parla con qualcuno vis à vis. Questo accade perchè ognuno di noi sa d'istinto che la parola scritta “pesa” più di quella parlata.
Il villano globale
In conclusione, lo strumento dei social network non va demonizzato. La loro "colpa", a ben vedere, è quella di aver polarizzato la comunicazione sulla scrittura, cosa peraltro salutata da molti esperti dell'educazione come un fatto positivo. Ma finchè non si comprenderà che la
comunicazione scritta è diversa da quella orale e richiede un
surplus di senso di responsabilità e di sensibilità culturale, la
rivoluzione 2.0 avrà sempre più difficoltà a distinguersi dal
“villaggio globale” entusiasticamente teorizzato dal sociologo
McLuhan. Ed è bene dire che anche McLuhan era stato costretto a
rivedere in un secondo tempo le sue posizioni d'origine: il
"villaggio globale" determinato dalla diffusione dei mezzi
di comunicazione di massa, lungi dalla "società aperta"
che era stata auspicata e preconizzata, si sarebbe rivelato essere
piuttosto la globalizzazione degli aspetti più deteriori della
socialità del tipico villaggio, nel quale tutti conoscono tutti, e
nel quale la fanno da padroni la chiacchiera maligna e capricciosa,
il conformismo soffocante, l'esclusivismo bigotto e il cameratismo
da galera. Tutte cose che possono spingere un'anima candida al martirio.
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