(Difficoltà 3,4/5)
Se c'è una cosa che mi fa incazzare, è
me stesso quando indulgo, da comunicatore o “blogger”, in slogan.
Questo post è quindi un'autodenuncia all'autorità dell'indipendenza
e dell'originalità di pensiero, cioè alla mia coscienza. Sono
quindi io stesso a presiedere l'autorità che mi deve giudicare: se
non è conflitto d'interessi questo...!
Seriamente, non c'è nulla che tradisca più il compromesso con la sostanza di ciò che non funziona nella “società della comunicazione” che il ricorso a slogan, a clichés, a espedienti linguistici che inducano una riconoscibilità superficiale della propria proposta. E' il tipo di familiarità ipnotica propugnata da ogni esperto di comunicazione che si rispetti, e per il quale vale sempre il detto: “Non conta quello che si dice; conta come lo si dice”. Insomma, il perenne dilemma fra sostanza e apparenza, fra profondità ed esteriorità ecc. Va detto che il dilemma è stato in verità risolto da tempo: il linguaggio pubblicitario ha penetrato il nostro costume comunicativo quotidiano ben più di quanto si sia disposti ad ammettere. Cerchiamo tutti, chi più chi meno, di associarci a qualcosa di facilmente identificabile, che ci introduca presso gli altri e ci renda istantaneamente riconoscibili, sia esso una frase o un atteggiamento, un capo di vestiario, un tic e così via. Ma questa auto-stereotipizzazione, che nei casi simili al mio configura almeno in apparenza un atto di masochismo intellettuale, è spesso funzionale alla percezione della propria mediocrità: è meglio essere riconosciuti per una inezia che essere ignorati.
Seriamente, non c'è nulla che tradisca più il compromesso con la sostanza di ciò che non funziona nella “società della comunicazione” che il ricorso a slogan, a clichés, a espedienti linguistici che inducano una riconoscibilità superficiale della propria proposta. E' il tipo di familiarità ipnotica propugnata da ogni esperto di comunicazione che si rispetti, e per il quale vale sempre il detto: “Non conta quello che si dice; conta come lo si dice”. Insomma, il perenne dilemma fra sostanza e apparenza, fra profondità ed esteriorità ecc. Va detto che il dilemma è stato in verità risolto da tempo: il linguaggio pubblicitario ha penetrato il nostro costume comunicativo quotidiano ben più di quanto si sia disposti ad ammettere. Cerchiamo tutti, chi più chi meno, di associarci a qualcosa di facilmente identificabile, che ci introduca presso gli altri e ci renda istantaneamente riconoscibili, sia esso una frase o un atteggiamento, un capo di vestiario, un tic e così via. Ma questa auto-stereotipizzazione, che nei casi simili al mio configura almeno in apparenza un atto di masochismo intellettuale, è spesso funzionale alla percezione della propria mediocrità: è meglio essere riconosciuti per una inezia che essere ignorati.
E' per questo che, a corollario di
questa auto-analisi e a mò di espiazione, rinuncerò a concludere
gli articoli di questa “rubrica” con la frase: “La prossima
volta fateci caso...” Riguardo invece all'iniziale “se c'è una cosa che
mi fa incazzare...”, mi si conceda, il discorso è diverso:
l'abituale incipit serve a far riconoscere la rubrica in questione, e
non il sottoscritto.
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