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La funzione salvifica dell'arte non è per sempre; il trapasso nel suo contrario è pre-programmato, aldilà dell'intenzionalità dell'artista, che nulla sembra potere: “La provocazione di Duchamp non solo smaschera come istituzione sospetta il mercato dell'arte, dove la firma vale più della qualità dell'opera su cui è apposta, ma mette anche radicalmente in discussione il principio dell'arte nella società borghese, secondo cui l'individuo è il creatore dell'opera. I ready-made di Duchamp non sono opere d'arte, ma manifestazioni. […] E' ovvio che questo tipo di provocazione non può venir ripetuta all'infinito. […] Una volta che lo scolabottiglie firmato è stato accettato come oggetto che merita spazio in un museo, la provocazione cade nel vuoto, si volge nel proprio contrario.” (P. Buerger, “Teoria dell'Avanguardia”, Bollati Boringhieri, 1990, p. 62)
E' così che l'arte di Christo sceglie
di saltare il passaggio iniziale: la sua arte è sì evento, ma
evento immediatamente inscritto nel sistema, dal quale trae la
propria ragion d'essere. Questo sistema è la spettacolarizzazione di
tutte le manifestazioni di vita, e così anche dell'evento creativo,
che diventa così irrimediabilmente “boutade” o, se si
preferisce, “pagliacciata”, non meno delle prestazioni dei
saltimbanco tatuati che popolano i talent o i programmi-spazzatura
dei Bonolis e delle De Filippi.
L'arte di Christo è, per un importante
aspetto, l'esatto contrario di quella di un Wharol, sia dal punto di
vista della produzione che da quello della fruizione: come
produttore, nessuno può avere i suoi 15 minuti di notorietà se
l'opera d'arte che dovrebbe assicurarglieli è un'installazione da un
milione di euro. E, dal punto di vista della fruizione: chi può
sperare di accedere a qualsivoglia notorietà confondendosi tra
migliaia di persone in una promenade sulle “floating piers”?
L'arte di Christo nasce dal capitale, e
non si perde nel pianto greco della sua caducità, ma anzi se ne bea,
perché il messaggio che ne traspare è: “Vedete: costruisco la mia
opera d'arte, spendendo milioni, per poi disinstallarla e farla
sparire senza che ne rimanga l'ombra.” E' chiaro che una simile
opera d'arte, nella sua costosa futilità, è esclusiva ed
elitaria al massimo grado, e ciò a dispetto del fatto che essa
manipoli un territorio e si presi così all'“utilizzo” dei comuni
cittadini che quel territorio popolano: essa è uno spreco che si
consuma nello spazio e nel tempo di un evento; è il trionfo
dell'immagine, e del transeunte che ormai abbiamo imparato essergli
proprio. La volgarità dell'ingombro con cui assale l'attenzione dei
passanti non è altra cosa dalla violenza con cui lo Spettacolo
occupa la vita delle persone, che queste lo vogliano o meno. Non si
scappa dalle opere di Christo come non si scappa dall'ultima breaking
news o dall'ultimo video virale: la mappatura sistematica della
nostra esistenza quotidiana non lascia aree inesplorate, colonizzando
anche possibili mete di un eremitaggio salvifico.
L'arte di Christo può essere al
massimo materia da pro loco, ma dal punto di vista del valore
culturale e umano dell'esperienza artistica, essa è l'emblema di
un'arte che non ha più nulla da dire: nemmeno sulla sua morte.
Ma quel nulla che ha da dire, lo dice
urlando.
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