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Le associazioni per i “diritti umani” sono in realtà associazioni per i rovesci umani. Lucrano e profittano dalle disgrazie umane. Esse sono in realtà un corpo che gravita nel macrocosmo del “progressivismo”: anche quando l’appartenenza politico-ideologica non è palese, l’identità nel modus operandi è sotto gli occhi di tutti. Anche esse infatti hanno trovato nelle disgrazie sociali la gallina dalle uova d’oro, e hanno instillato nella mente collettiva l’idea, talmente radicata a questo punto da diventare sorgente inesauribile di tabù collettivi, che la più onesta e oggettiva critica ad esse equivalga a essere dalla parte di ciò che rende il mondo peggiore. Queste associazioni del resto - o i loro addentellati nei media o nella fogna della politica, che sono fatti della stessa pasta - non mancano mai di usare la mannaia della diffamazione più becera e strumentale: l’atteggiamento passivo-aggressivo con cui silenziano ogni critica si manifesta nelle più infamanti accuse. La più infamante fra le più infamanti è naturalmente quella, evergreen, di “razzismo”. E questo perché attualmente il grande business al centro dei tramacci di queste associazioni “no-profit” è quello del traffico di clandestini dal Terzo Mondo.Ci fu un tempo in cui queste associazioni nascevano con le migliori intenzioni. Oggi non è più così. E ciò in virtù di un processo naturale e perfettamente logico e realistico. Pensiamoci un attimo. E per farlo aiutiamoci con un caso da manuale, senza scomodare gli innumerevoli esempi che si potrebbero addurre: qui si tratta di enucleare l’essenza del fenomeno, non di prendercela con questo o quell’ente, col rischio magari di dargli particolare rilevanza a discapito degli altri.
Ecco il nostro caso da manuale. Un individuo o gruppo (virtuoso) constata un problema sociale che coinvolge qualche violazione di diritti umani. Crea un’associazione per combattere questo status quo. Col tempo l’associazione ottiene iscrizioni, contributi da magnati, speculatori e filantropi per lo più in cerca di un modo per riciclare il loro sporco nome. I media parlano del problema, e i soldi continuano ad affluire. L’associazione cresce e si espande, e così la sua fama, l’aura di santità la eleva a uno dei tanti equivalenti laici della Caritas. Essa apre sempre nuove filiali nazionali e internazionali, arriva a impiegare centinaia o migliaia di persone. Poi a un certo punto il problema che questa congrega di madreterese era nata per risolvere è di fatto e di sostanza risolto: lo dicono le statistiche, lo dice la legislazione, lo dice la cronaca quotidiana. Missione compiuta, è ora di sbaraccare e di godersi il futuro di libertà e giustizia sociale che si è contribuito a creare, giusto? No, manco per sogno. Chi può in tutta onestà contemplare solo la possibilità che queste organizzazioni “per i diritti umani” ritirino volontariamente il proprio brand, licenzino migliaia di dipendenti e chiudano conti correnti e inviino lettere di ringraziamento ai Soros di turno per ringraziarli e dire loro che “non è più il caso”? Una persona che creda a questo può credere a tutto. Infatti, e a dispetto del loro status di organizzazioni “non a scopo di lucro”, questi enti raccolgono miliardi, acquistano edifici che col tempo si rivalutano al rialzo, pagano stipendi ecc. Nessuno all’interno di esse ha mai fatto o farà voto di povertà. E equipaggi, imbratta-carte e galoppini che vi lavorano non sono “volontari” francescani, come vorrebbero far intendere, ma in buona parte fanatici da treccine rasta che non troverebbero lavoro in nessun altro caso. Lo stipendio per l’equipaggio della teppistella tedesca di buona famiglia che nel 2021 speronò una motovedetta della Guardia di Finanza, prontamente perdonata dal turnante giudice al soldo ideologico del progressivismo nostrano, per esempio, si aggira a “poco più di 2 mila euro mensili” a cranio (1). Niente male, se tiriamo dentro anche il bonus della benedizione mediatica urbi et orbi e della possibiltà di vantarsi sui social del fatto che la propria merda non puzza.
Quindi, ricapitolando: alcune di queste associazioni, specie quelle storiche, nascono con buone intenzioni. Ma si sa che la via per l’inferno è lastricata di suddette buone intenzioni, e prima o poi ognuna di queste ong (o qualsiasi sia la denominazione) si trasforma in una macchina da lucro, quando non in complice dei più squallidi e inumani traffici. E lo dice la logica, oltre che la cronaca e il “money trail” (cioè la scia dei finanziamenti con le personalità che vi stanno dietro, prima fra tutte l’immancabile seminatore di discordia e corruzione sociale, George Soros). Nessuno, sano o anche meno sano di mente, può credere in buona coscienza che alcuna di queste organizzazioni sbaracchi una volta risolto il problema che esse erano nate per risolvere. Per credervi bisogna essere affetti da una particolare forma di stupidità, quella perniciosa su più larga scala, quella che si maschera da buon animo, e cioè la malattia sociale più incurabile e devastante: il progressivismo. Prima o poi viene per tutte – in ragione di quanto “tira” mediaticamente la loro causa in un dato momento storico, o di quanto essa collima con interessi politici o economici anche i più loschi – il momento in cui la mission iniziale viene corrotta e l’organizzazione, lungi dal lottare contro il problema, lo crea o lo alimenta per restare in vita e ingrassarsi. Predando i valori e le persone che era nata per proteggere.
Quanto
‘guadagna’ la Sea Watch: i numeri su donazioni, spese e costi (che smentiscono
le bufale), di Donato de
Sena, tpi.it, 27/06/2019. Fonte non sospettabile di "fascismo".
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