martedì 29 gennaio 2013

ITALIANI POPOLO CRAPULONE E CANTERINO


(Difficoltà: 2,4/5)

Le innumerevoli trasmissioni di cucina – e il successo che riscontrano – ci dicono una cosa sola: che  gli italiani sono un popolo crapulone.
Le innumerevoli trasmissioni di talenti del canto – e il successo che riscontrano – ci dicono invece che gli italiani sono un popolo canterino.


Un'arte "consumabile" è un ossimoro

Io posso comprendere il fascino dell'arte culinaria, non fosse altro che le pietanze non sono fatte per essere esibite in un museo, ma per essere consumate. La cucina è quindi un'arte solo impropriamente definita tale: non si conosce un'arte che contraddica a tal punto la sua missione da porsi al servizio della voracità consumistica del proprio tempo, ove il termine “voracità” è per una volta usato nel suo significato letterale. Il pisciatoio di Duchamp manteneva il suo stato di oggetto artistico, nonostante la sua quotidianità esibita in un eccesso provocatorio, proprio in quanto si supponeva che nessuno dovesse più da quel momento farne un uso per così dire “tradizionale”.


"Belle voci" e "grandi fiati"

Posso anche comprendere il fascino dell'arte canora, non fosse altro che il canto è per così dire un'arte priva di talento, nel senso che uno una bella voce se la trova come un dono già dato, e che al limite necessita solo di essere coltivato. Diverso sarebbe se la voce fosse uno strumento al servizio di uno spirito compositivo e creativo, invece che semplicemente interpretativo. Inoltre, fa sempre capolino l'equivoco della confusione tra “bella voce” e “gran fiato”. Molte di quelle che vengono elogiate come delle grandi voci sono in realtà delle/dei grandi urlatrici/urlatori. La maggior parte di chi si esibisce in gare canore amatoriali o a Sanremo ha in realtà una voce mediocre, indistinta e indistinguibile, per timbro e personalità, da mille altre. Tutto si riduce in soldoni a chi urla più forte. Se invece si ha un minimo di gusto uditivo risulterà facile distinguere fra una voce come quella di Tiziano Ferro (bella e innegabilmente unica) e quella di una cantante come Giorgia (impersonale, affettata, manierata, potente ma mediocre).

Conclusione polemica (e non potrebbe essere altrimenti)

Eppurtuttavia, i telespettatori italici si crogiolano nei loro passatempi culinario-canori con una solerzia e una instancabilità a loro modo ammirevoli. Il tutto mentre fuori dai loro salotti le mafie divorano ogni giorno pezzi di giurisdizione e di economia reale, e il debito del nostro Stato tocca i duemila miliardi di euro.
Gli italiani si avvicinano alla celebrazione della loro Ultima Cena, e all'intonazione del loro Canto del Cigno. Lo facessero almeno con un minimo di dignità...

L'Immaturo Vendicativo si tuffa nella merda

lunedì 21 gennaio 2013

ANIME CANDIDE NEL VILLAGGIO DEI DANNATI

 (Difficoltà: 3.3/5)

Social NetworkSono più d'uno i casi di ragazzi suicidi a causa del cyberbullismo (qui un'esempio) cioè il bullismo praticato fra coetanei utilizzando i social network. Mi sovviene un caso analogo, certo tra i più tristi, di una ragazza che aveva espresso su Facebook la sua intenzione di suicidarsi. Tra le varie reazioni spiccarono quelle di chi non la prese seriamente e se ne prese gioco e di coloro che addirittura la incitarono al gesto. Ora, tutti sanno che, se una persona vuole farla finita, lo fa e basta, e poi al limite spiega le sue ragioni in un messaggio. Se uno invece prende tempo si rivolge a qualcuno manifestando questa sua idea, lo fa apposta per esserne dissuaso e per trovare stimoli e parole di incoraggiamento. Quindi queste persone sono corresponsabili (tutte assieme, e ciascuno per sé), della morte di quella persona che, se i commenti fossero stati diversi, sarebbe ancora viva.
Se consideriamo che questi istigatori al suicidio erano degli “amici 2.0” , si capisce bene l'urgenza di definire bene il concetto di amicizia nell'era digitale.


Quella cosa strana chiamata "amicizia"

Internet non ha inventato nessun male. Semplicemente, esso ha amplificato, per via dell'accessibilità senza barriere di ogni contenuto, fenomeni preesistenti. Ciò vale per la pedofilia, per l'assuefazione sessuale, per la solitudine alienata, per lo stalking, e anche per il bullismo. Non è una differenza di natura, ma di grado, nel senso che questi disdicevoli comportamenti rimangono quelli di sempre nella loro natura, ma internet fornisce mezzi inediti e più potenti per la loro perpetrazione.
La parola amicizia è sempre stata soggetta all'equivoco. Infatti, tutti i tipi di rapporti interpersonali hanno una ragione d'essere che li identifica: il rapporto di lavoro (ragione economica), il rapporto fra sessi/coniugale (ragione sessuale), il rapporto parentale (ragione di sangue/genetica), ecc. Per tutti i rapporti interpersonali, è facile definire la natura sulla base di certi elementi chiaramente individuabili e giustificabili. Per tutti, tranne l'amicizia. Quello di "amicizia" è un concetto oscuro, difficile da fondare (se non ricorrendo al generico concetto di “socialità”, che include pressochè ogni comportamento umano e che spiega tutto e niente). L'amicizia va e viene, spesso senza lasciare tracce. A volte, ci accorgiamo che non era mai nata, che era un'illusione. Altre volte, l'amico ci tradisce, e noi ce ne facciamo facilmente una ragione e passiamo ad altro (anzi, ad altri).
Perchè spesso quella che si crede amicizia altro non è se non semplice “frequentazione”. Questo è un dato di fatto pre-tecnologico. Nell'era dell'internet 2.0, poi, è del tutto normale che questo elemento di incertezza si amplifichi, e che il concetto di amicizia si sovrappunga sempre più con quello, appunto, di “frequentazione”. In questo senso, può benissimo essere rimpiazzata dai social network. Verrà il momento – e in parte ciò è già cosa fatta – nel quale l'amicizia reale e quella digitale non saranno più distinguibili, se non per il contatto fisico, che però si riduce a singole parti di una realtà, esteriori ed eterogenne rispetto all'essenza dell'amicizia, che si deposita nella persona (es.: mi incontro con l'amico “fisicamente” perchè mi deve dare un libro; mi incontro con gli amici al bar perchè è un'occasione per bere, o perchè mi piace il locale ecc.) In un certo senso, l'amicizia “reale” sarà sempre irriducibile a quella digitale, ma solo per elementi che si potrebbero definire “di contorno”. 


La rivincita del reale

Ma non intendo qui sottovalutare l'importanza di una frequentazione fisica dell'altro. La comunicazione scritta (quindi a distanza) ha dei suoi limiti:
  1. Innanzitutto, per quanto la si possa semplificare, popolarizzare e sottoporre a una traslitterazione dal parlato, la comunicazione scritta sottosta sempre a un criterio di codificazione. La sua codificazione si identifica innanzitutto con il semplice fatto che la comunicazione scritta poggia su una convenzionalità fatta di simboli e regole grammaticali. Ma la codificazione pertiene anche – fatto, questo, un po' più complesso - a una tradizione culturale, che le dà regole di condotta che non trovano applicazione nella comunicazione orale. Ci sono cose che, se nella comunicazione orale hanno una loro collocazione e senso, nella comunicazione scritta possono risultare incerte, inopportune o addirittura fonte di gravi equivoci. Purtroppo, la larghissima (e crescente) diffusione di Facebook fa sì che il numero di utenti che hanno a disposizione questi strumenti culturali si assotigli sempre di più a vantaggio di chi non ne dispone. Ne consegue che lo scarto fra parola scritta e parola parlata si riduce sempre di più, e ognuno tende a scrivere “come parla”. Ma ciò non è cosa buona, perchè la comunicazione scritta deve necessariamente sottostare a un registro relativamente alto, e ciò indipendentemente dal mezzo che la veicola. Infatti, essa deve far fronte a deficienze irrecuperabili della stessa, che sono in pari tempo le virtù di un contatto reale con l'altro (la presenza reale, vedi punto seguente). Questa “superiorità” della parola scritta non esprime snobismo intellettuale, ma semmai l'esatto contrario: sensibilità orientata al rispetto della persona.
  2. La comunicazione scritta non ammette la presenza reale, e quindi il veicolo comunicativo del corpo. Gli “emoticons” sopperiscono in parte a questa mancanza, stilizzando l'intenzione emotiva che sta dietro un pronunciamento. In questo modo, la portata di una frase come: “Sei proprio da rinchiudere” cambia radicalmente se accompagnata o meno, per esempio, da una faccina che sorride. Ma, naturalmente, questi espedienti grafici non bastano a sostituire le infinite sfumature dell'espressività facciale, della gestualità corporea della persona, del tono di voce ecc. 
  3. Laddove ciò che si dice può essere relativizzato al momento in cui lo si dice (un insulto può essere uno sfogo irriflesso di cui poi ci si pente), la parola scritta è fatta per rimanere e per lasciare un'impressione duratura e definitiva. Laddove è pratica comune quella di leggere e rileggere il messaggio prima di postarlo, capita al contrario con molta meno frequenza che ci si fermi a riflettere su ciò che si sta per dire, quando si parla con qualcuno vis à vis. Questo accade perchè ognuno di noi sa d'istinto che la parola scritta “pesa” più di quella parlata. 

Il villano globale

In conclusione, lo strumento dei social network non va demonizzato. La loro "colpa", a ben vedere, è quella di aver polarizzato la comunicazione sulla scrittura, cosa peraltro salutata da molti esperti dell'educazione come un fatto positivo. Ma finchè non si comprenderà che la comunicazione scritta è diversa da quella orale e richiede un surplus di senso di responsabilità e di sensibilità culturale, la rivoluzione 2.0 avrà sempre più difficoltà a distinguersi dal “villaggio globale” entusiasticamente teorizzato dal sociologo McLuhan. Ed è bene dire che anche McLuhan era stato costretto a rivedere in un secondo tempo le sue posizioni d'origine: il "villaggio globale" determinato dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, lungi dalla "società aperta" che era stata auspicata e preconizzata, si sarebbe rivelato essere piuttosto la globalizzazione degli aspetti più deteriori della socialità del tipico villaggio, nel quale tutti conoscono tutti, e nel quale la fanno da padroni la chiacchiera maligna e capricciosa, il conformismo soffocante, l'esclusivismo bigotto e il cameratismo da galera. Tutte cose che possono spingere un'anima candida al martirio.

The Global Village

sabato 12 gennaio 2013

UDIENZA DEL SANTO PAPI

Ho avuto modo di definire la recente puntata di “Servizio Pubblico” con ospite Berlusconi una sciagura. Qui intendo articolare meglio questo mio giudizio, senza impuntarmi sul singolo evento, bensì deducendo, più o meno esplicitandoli, alcuni elementi e alcuni giudizi (temo conclusivi) sul ruolo di un certo giornalismo di contestazione.
Nella lunga vigilia di questa sfida televisiva, da più parti si era levata l'obiezione che l'invito di Berlusconi alla trasmissione di Santoro avrebbe giovato a un leader ormai decaduto, ma mai morto, qual è il plurinquisito frequentatore di minorenni. Questo si è puntualmente verificato, ma in una modalità solo apparentemente paradossale: Berlusconi ha vinto perdendo, mentre Santoro ha perso vincendo


Dal lato di Berlusconi
Come si era anticipato, Berlusconi ha dovuto parare i colpi di una critica imparabile, perchè tutto di quello che è stato detto contro di lui era vero. Tuttavia, Berlusconi non può perdere in questi confronti, e non, come si dice di solito piuttosto scioccamente, per la sua supposta maestria nella comunicazione televisiva: se le telecamere fossero state spente, l'esito sarebbe stato il medesimo. Berlusconi vince perchè, anche se si fa affossare dalle critiche, fa la figura del martire, del Cristo ignudo che affronta i dieci centurioni armati di daga. Naturalmente, la cosa va geograficamente contestualizzata: in altri paesi che non sono l'Italia tali critiche distruggerebbero chiunque per sempre e le menzogne infognerebbero ancora di più chi le pronuncia a propria difesa, invece di seminare dubbi. In Italia, invece, 20 anni di vittimismo berlusconiano e di giornalismo compiacente hanno creato una situazione per la quale questo anziano poco di buono, quando non affascina in un'esibizione di ricchezza e di potere, commuove e impietosisce attraverso la mitologia dell'uno contro tutti (la Magistratura, la Sinistra, la Stampa, l'invidia di Confindustria ecc.). Insomma, o l'uomo solo al comando o l'uomo solo contro tutti: in entrambi i casi, ad ogni confronto B. parte con un bonus di approvazione il più delle volte decisivo.
Purtroppo invece, B. le critiche-accuse di solito le controbatte efficacemente. Questa efficacia, va da sé, non dipende dal merito: le critiche che dipingono B. come un governante inetto e come un imprenditore evasore e allacciato alla mafia sono probanti o comunque giustificate. L'efficacia riposa tutta piuttosto nell'aspetto emotivo. E' purtroppo un difetto strutturale del mezzo televisivo, che nasce come strumento di svago e non dimentica questa suo codice genetico nemmeno quando si confronta con l'informazione. Al pubblico l'unica cosa che interessa è che uno risponda a tono, con sicurezza e fermezza. Al pubblico non interessa il contenuto di ciò che uno dice, e premia con l'alloro della vittoria più colui che racconta balle palesi con convinzione di colui che racconta la logica verità con esitazione e con la fronte perlata di sudore. La televisione è un'arena nella quale anche la cultura e l'informazione sottostanno alle logiche dello spettacolo. 


Dal lato di Santoro 

E Santoro? Santoro ha perso vincendo. Santoro ha usato il pretesto dell'nformazione per perseguire ciò che, da uomo di televisione, più gli interessava: l'audience. Siccome 9 milioni di persone hanno visto quella puntata, Santoro ha vinto. Ma egli ha anche perso, in quanto proprio l'informazione, che particolarmente in questa occasione è stata usata come foglia di fico, è ciò che è andato a fondo. Che elementi di informazione era possibile trarre da un monologo di balle lungo due ore e mezza, e da domande che ripresentavano sempre le solite questioni? Le risposte false a domande vere non fanno informazione, fanno solo confusione. E della confusione beneficia sempre e solo chi è nel torto.
Altri errori imperdonabili per un giornalista esperto come Santoro sono i seguenti:
1) Non mettere un giornalista di destra o filo-berlusconiano fra quelli “schierati” anti-Berlusconi. Questo avrebbe almeno ridimensionato il fattore “epicizzante” del “solo contro tutti”.
2) L'indulgere sui coup de théâtre e sulla spettacolarizzazione. In ciò, Berlusconi è superiore, perchè non sa fare altro. Così facendo, Santoro si è messo a combattere sul campo dell'avversario, e a quel punto qualsiasi cosa si fosse fatta o detta sarebbe stata irrilevante. In particolare:
a) le battutine e il cabaret, come l'insistenza sulle “scuole serali”, e il frequente abbandono di una certa austerità che avrebbe messo Berlusconi in seria difficoltà.
b) il fatto che si siano messe due giornaliste in prima linea sul palco a fare domande: una giovane, l'altra più esperta. Chiaro qui l'intento santoriano di sottolineare il contrasto fra le “donnine” di Berlusconi e le “sue” donne, colte serie e preparate. Il risultato è che la giornalista più giovane, che ricuperava freneticamente domande e dati da un pacco di fogli posato sulle sue ginocchia, appariva una scolaretta alla prova finale, sicura di spaccare il mondo e di fare il colpaccio nello spiazzare B. con la forza della verità, che “non conosce argini”. La giornalista più esperta ha un po' fatto, anche per contrasto, la figura della maestrina un po' petulante.
3) Si è fatto parlare B. come un fiume in piena. I giornalisti presenti, ahimè Travaglio incluso, non hanno ritenuto di prepararsi a dovere anticipando ogni possibile risposta di B. in merito per esempio ai risultati del suo ultimo governo, e hanno forse creduto di poter vivere di rendita dall'eredità di tante passate tramissioni e interventi nei quali questo ed altri argomenti erano stati rispolverati a più non posso. Incalzare B. durante i suoi monologhi sottolineandone contraddizioni e autocontraddizioni gli avrebbe fatto perdere la testa e avrebbe rivelato la sua pochezza di uomo e di politico. Così non essendo stato, B. è uscito vincitore dal confronto soprattutto dal punto di vista della tenuta emotiva.
4) Santoro ha fatto di tutto per avere B. nella sua trasmissione, incluso promettergli che non avrebbe parlato dei suoi processi. Legittimo. Ma siamo sicuri che non abbia anche detto ai suoi giornalisti, eminentemente a Travaglio, di andarci piano e di usare cautela, soprattutto nella prima parte di trasmissione, per non subire lo smacco di un B. che se ne esce anzitempo adirato dallo studio? Il sospetto è più che fondato, se pensiamo che anche Santoro è apparso nei primi minuti di trasmissione piuttosto cauto ed emozionato; poi, verso metà trasmissione, ha rilasciato un po' di tensione attraverso qualche scambio cabarettistico con l'ospite; infine, verso la conclusione, quando ormai il danno preventivabile da una prematura uscita di B. era minimo, l'irato battibecco con B., con annesso invito a “vergognarsi”.
“Servizio Pubblico” è uscito snaturato dal confronto, Berlusconi ne è uscito confermato. Santoro ha vinto come uomo di televisione ma questo non è qualcosa di cui possa gloriarsi, almeno nella misura in cui egli pretenda di essere qualcosa di diverso da Paolo Bonolis o da Carlo Conti. Se le prossime elezioni confermeranno in qualche modo la politica disastrosa degli ultimi 20 anni, anche Santoro dovrà assumersi le sue responsabilità. Da giornalista quale (principalmente) è.


venerdì 11 gennaio 2013

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9992

"LA MIA AZIENDA CREA POSTI DI LAVORO": DIAGNOSTICA DELL'APPARENTEMENTE OVVIO

Santoro e Berlusconi
Se c'è una cosa che mi fa incazzare sono gli imprenditori che ad ogni che e in ogni dove se ne escono con la frase: “La mia azienda crea posti di lavoro.” Che è come se io in questo momento dicessi: “Sto creando dei caratteri al computer.” Piuttosto ovvio, non trovate? Sennonchè la mia finalità non è quella di battere sulla tastiera a caso per far sputare al mio computer dei simboli, ma piuttosto quella di scrivere un articolo possibilmente dotato di senso. Allo stesso modo, nel pronunciare quell'insulsa frase, l'imprenditore vorrebbe atteggiarsi a salvatore della patria, ad angelo protettore del destino dei semplici, come se creasse dei posti di lavoro pur potendone fare a meno. Come se lo scopo della sua impresa non fosse il profitto, e il lavoro non fosse lo strumento principale per questo scopo, ma il fine ultimo del suo operare. 
Infatti, se dissipiamo per un'istante la fetida cortina fumogena che avvolge, a giustificazione ideologica del suo stupro materiale e legislativo, il concetto di lavoro in questo paese (una Repubblica fondato sul medesimo, come da Art. 1), scopriamo che qui come altrove l'impresa non può sussistere senza il lavoro. Infatti, il contrario del lavoro è la rendita parassitaria, e associare quest'ultimo concetto a quello di “impresa” creerebbe un ossimoro insostenibile. Ad esempio, un finanziere che si arricchisce incassando i dividendi delle aziende non è un imprenditore, e così non lo è chi campa con gli affitti delle sue proprietà immobiliari. Il primo lavoratore di un'impresa è il suo proprietario, e se questi disprezza il lavoratore disprezza se stesso


Anche le frasi possono avere un "doppio fondo"

Ma qual è il vero motivo della ripetizione mantrica di questa frase, che anche Berlusconi ripete costantemente nelle sue sbrodolate televisive pre-elettorali (l'ultima volta ieri nella sciagurata puntata di “Servizio Pubblico”: “Le mie azienda hanno dato lavoro a 75000 persone”) e che assieme a lui ripetono tutti gli imprenditori quando vengono intervistati su temi quali l'evasione fiscale, la crisi economica e i soprusi di Equitalia?
Quando Berlusconi solletica la coscienza degli elettori indecisi equiparando le sue imprese a una Caritas lavorativa, le domande sgorgano impellenti: “Ma una di queste imprese non è la Mondadori, sottratta da B. al legittimo destinatario a suon di mazzette?”; “Ma la fortuna imprenditoriale di B. non sarebbe stata impossibile senza quei capitali iniziali sulla cui provenienza B. ha steso il velo della facoltà di non rispondere in sede di udienza processuale?”; “Ma non è vero che le aziende di Berlusconi hanno evaso il fisco per chissà quanti milioni?”; “E non è vero che le aziende di B. sono al centro di una galassia di società offshore sulle quali circolano capitali sottratti ai bilanci delle aziende medesime, in frode degli investitori?”
Perchè il punto è proprio questo: il Leitmotiv “La mia azienda crea posti di lavoro”, che è in sè come si è detto assurdamente tautologico, acquisisce più senso se si dà voce al pensiero recondito, al “doppio fondo” che lo motiva: “... quindi permettetemi di evadere il fisco”, “... quindi permettetemi massima libertà nell'approvvigionamento dei capitali”, insomma: “... quindi datemi carta bianca.”
Se un'azienda per sopravvivere ha bisogno di evadere il fisco o di incorporare le più inconfessabili nequizie, c'è qualcosa che non va. E i casi sono due: o il mercato di riferimento è debole, in crisi, e il destino dell'azienda sarebbe quello di chiudere nel rispetto delle dure leggi del mercato; oppure, l'intera economia ormai è drogata dall'illegalità, per cui un'azienda in un mercato sano ha poche chance di sopravvivere se non si adegua alla concorrenza e non inizia anch'essa ad assumere in nero, a evadere il fisco, a operare in barba ai criteri di qualità e di sicurezza, a incorporare capitali mafiosi, ecc.
Frasi come: “La mia azienda crea molti posti di lavoro” costituiscono un ricatto. Pure un po' mafiosetto, perchè si avvalgono del non detto, come abbiamo visto. Il senso di queste frasi non va ricercato nella logica apparente, bensì in quella nascosta. 
La prossima volta, fateci caso.
L'immaturo vendicativo ammonisce


giovedì 3 gennaio 2013

LA FINE DEL MONDO? CI STIAMO GIA' IN MEZZO!

Nel caso non ve ne siate accorti, abbiamo evitato per un pelo la fine del mondo, come da profezia dei Maya (che nemmeno riuscirono a prevedere la loro, di fine...). Corrisponde a verità il fatto che tutte queste menate sulla fine del mondo siano un artifizio inventato dall'Umanità per poi poter dire: “L'abbiamo scampata bella!” (in luogo di: "Ma quanto siamo stati idioti a crederci!"). Un po' come quando si porta tutto il giorno un paio di scarpe troppo strette apposta per il piacere di togliersele la sera. Il fatto che declini questa cosa in senso antropologico non è un'indebita generalizzazione: in effetti, l'artifizio in questione si propone e ripropone innumerevoli volte nella Storia. Il primo che mi viene mente è il Millenium Bug, cioè l'idea balzana che, allo scattare dell'anno 2000, i computer mandassero in tilt l'intero mondo degli uomini che ormai su di essi si basa. E', questa, una riproposizione hi-tech, cioè in chiave contemporanea, del “Mille e non più Mille” di matrice biblica. E in effetti, la paralisi informatica non è, nel mondo di (inter-)dipendenza tecnologica nel quale viviamo, la cosa che più assomiglia alla fine del mondo propriamente detta, fatta eccezione per una guerra termonucleare globale? Invero, la fine del mondo non è necessariamente un Big Bang all'incontrario. Può anche essere un processo lungo decenni, ed è possibile che noi già ci si stia proprio nel mezzo.
Quella della fine del mondo è quindi una “fissa” antropologica. Ma nell'epoca in cui viviamo si aggiungono nuovi elementi. Dietro quello che in inglese si chiama “fearmongering” (allarmismo creato ad arte) c'è di solito qualcosa di più, dal semplice marketing al vero complotto politico-sociale.

La paura è diventata un business
Nel suo film “Bowling for Columbine” Michael Moore afferma che anche il Millenium Bug, come l'attacco delle api assassine dall'Africa nera e la “mucca pazza”, non siano solo delle excogitatio dei media per riempire, inventando e montando ad arte, prime pagine di giornali e tg, ma anche e soprattutto degli espedienti per alimentare quello stato di tensione che poi porterebbe all'acquisto da parte degli Americani, e non solo, di sistemi di sicurezza, di pistole Taser e di armi semplici e militari. Insomma la paura è un business, e ciò vale in e per tutto il mondo. Non è vero forse che anche il più piccolo brufolo è trasformato nella pubblicità in un elemento di sputtanamento sociale? Che la differenza fra una vita socialmente appagante e un'esistenza da reietto passa per un alito mentolato? E non è forse vero che la mancata esibizione di un Iphone di ultima generazione, dell'abitino firmato o della borsa Mandarina Duck in certi ambienti può creare un sentimento impalbabile ma reale di esclusione dal consesso delle persone cool? La paura è oggi un modo per vendere o per giustificare l'ingiustificabile: le guerre d'attacco e di conquista (che vengono così trasformate in guerre “di difesa”, per il “mantenimento della pace” o “preventive”) e, in America, la corsa agli armamenti non più da parte del Governo contro un nemico esterno, come durante la Guerra Fredda, ma del singolo cittadino contro i suoi concittadini.
La paura che si condensa in leggende metropolitane (il Milleniun Bug, le Api assassine, le buste di antrace) non è solo (e non è più tanto) una forma di difesa preventiva eretta dall'inconscio dell'Umanità per far fronte a imprevisti attacchi dall'interno e dall'esterno del suo habitat naturale o sociale. Ai miei tempi, la paura degli sconosciuti che ti offrono una caramella non mi spingeva ad acquistare una pistola per sparare in fronte a tutti coloro che me l'avessero offerta. Mi spingeva, piuttosto, a considerare le gentilezze da parte di estranei come un campanello d'allarme per quello che poteva succedere. E quando mia madre mi diceva di non raccogliere le caramelle per terra perchè potevano contenere della droga, io capivo che lei lo faceva per il mio bene, anche se cassavo senza riserve l'idea che, con quello che costa, uno potesse farcire caramelle con droga per poi disseminarle sull'asfalto a mò di esca. Allo stesso modo, l'orco delle favole serviva a mettermi in guardia contro la pedofilia senza dovermi spiegare cos'è la pedofilia (cosa impossibile da spiegare ad un bambino, ovviamente).

Quando la paura diventa un'epidemia
I messaggi intimidatori emanati dai media e dalla pubblicità a piè sospinto inquinano ai giorni nostri la sorgente da cui sgorga la serenità di un'equilibrato vivere civile, che ci fa essere ben disposti e gentili nei confronti degli altri. Fino a qualche tempo fa si poteva affidare il proprio figlio a un anziano pensionato fuori dal supermercato, perchè ce lo custodisse fino alla fine della spesa. Oggi no, questo non è più possibile. La paura sociale crea divisione. Non fra buoni e cattivi, ma fra tutti. Perchè è un sentimento indistinto, che non sa a chi - e spesso nemmeno a cosa - rivolgersi. Questa paura è come la notte in cui tutte le vacche sono nere. Uno stato di tensione e allerta così indistinto, ma nello stesso tempo così costante e potente, a volte produce, per sopraggiunto sfinimento, l'esito paradossale di abbassare la guardia proprio quando c'è bisogno di tenerla alta, nello stesso modo con cui la si tiene alta quando ci si potrebbe invece rilassare.
Se io chiamo la polizia affermando che in un negozio di alimentari si aggira uno armato di pistola, rischio di venir denunciato per procurato allarme (con arresto fino a 6 mesi), se ciò non risultasse vero. Questo è, mutatis mutandis, ciò che fanno, a ogni ora del giorno e a ogni minuto dell'ora, i media.
La questione delle armi in America ha raggiunto livelli di parossismo tali da far invidia al più spregiudicato regista surrealista. Il sillogismo all'opera è il seguente: chiunque può possedere armi, anche gli squilibrati (basta che non abbiano precedenti penali), i quali poi fanno stragi; ergo: anche io debbo contribuire alla diffusione delle armi acquistandone una per mia autodifesa. E' come se, per scongiurare il pericolo di essere punti con una siringa infetta da un drogato che vuole i nostri soldi, cominciassimo a farci venire tutti l'aids apposta per poter girare con siringhe infette. Così, per “autodifesa”. Fuor di metafora, la malattia che rende “infetti” è qui chiaramente la follia, e non a torto si comincia a definire “epidemia” non solo il tasso di mortalità per armi negli Stati Uniti, ma anche la diffusione di armi che lo rende possibile. Vale a dire che è follia certo quella di chi penetra nei cinema e nelle scuole e comincia a sparare, ma è follia anche quella della casalinga che infila una pistola nella borsetta quando va alla filiale di Walmart. Perchè una cosa sembra accertata: chi possiede una pistola, prima o poi la usa.

La “paura della paura” è l'unica cosa che ci può salvare
Dostojevskij fa dire a Ivan Karamazov che "se Dio non esiste allora tutto è permesso". Allo stesso modo, si può dire che se uno crede di potersi far giustizia da sé, allora ogni follia è possibile. Perchè la giustizia è razionalità della vita sociale che si codifica in leggi. Essa non è fatta da nessuno (in particolare), ed è fatta per tutti. Se uno rinuncia alla legge condivisa per improvvisarsene una propria, rinuncia anche alla ragione. Se uno rinuncia alla legge, allora solo l'attimo della pressione del grilletto lo separa dalla follia dello stragista.
Non scrivo queste parole per caso. Sempre nel film di Moore che ho citato, una giovane donna madre spiega la sua passione per le armi con queste parole: “Se cerchi aiuto perchè qualcuno ti è penetrato in casa, chiami la polizia, in quanto i poliziotti possiedono le pistole. Perchè? Togli di mezzo l'intermediario. Procurati tu una pistola e proteggi tu stesso la tua famiglia.” Questa frase è come un tirare la catena sopra secoli di paziente edificazione di un sistema di diritto tra i più evoluti. In America come altrove, la pratica del "fearmongering" si innesta su una piattaforma di consumismo esasperato che è la risultante di un capitalismo sbandato sulla traiettoria di una deregulation assoluta, che fagocita ed espelle i valori più concreti, quelli che si sostanziano in diritti (diritto alla vita, all'assistenza, alla giustizia ecc.). Il mostro che ne risulta è e deve essere l'unico oggetto legittimo della nostra paura. La paura della paura è la nostra ultima frontiera di salvezza, ciò che ci può salvare. Perchè il peggio non deve ancora arrivare: ci viviamo in mezzo.

 "Uomo michelangiolesco massacrato da una bomba al Napalm."