mercoledì 27 marzo 2013

INCREDIBILE RITROVAMENTO! IL CANTO XXXV DELL'INFERNO DI DANTE! INEDITO E IN ANTEPRIMA MONDIALE!

La sorte ha voluto che venissi in possesso di un documento incredibile: quello che appare essere il XXXV Canto dell'Inferno di Dante! Nessuno sospettava nemmeno della sua esistenza, e purtroppo non posso dire nulla di come mi sia capitato fra le mani, in quanto ciò metterebbe a grave rischio la mia incolumità. Il documento è costituito da un quaderno in fragilissima pergamena, autenticato da un esperto, che conservo in un luogo ultrasegreto. Quello che ancora è più incredibile, è il contenuto straordinariamente profetico di questo canto: un nuovo senso dato alla definizione di Dante come "anticipatore della modernità." Una scoperta quindi che farà spargere fiumi d'inchiostro a tutti i dantisti dell'orbe terracqueo.
Questo XXXV Canto prosegue direttamente dal precedente, e ignari sono i motivi per i quali Dante decise di scartarlo. Non ho gli strumenti conoscitivi adatti per formulare ipotesi, esegesi e interpretazioni di nessun tipo. Posso solo riprodurre qui il testo in anteprima assoluta, dietro la premessa che parti di esso nell'originale non risultano agevolmente decifrabili.

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Dante, Inferno, Canto XXXV

§§§

E giunsi al fin donde 'l puzzo è più amaro,
e Umanità tanto s'immerda ch'Iddio 
di Su' opra vorria ser ignaro.

Chè dall'alto luogo ch'era del duca e mio
tan mala vision s'offria, ch'il quesito
era: “L'infernal punito era lui o io?”

Can barattier, di malavita ardito
era colui ch'io dico, al punto sozzo
ch'un giron a lui sol era tribuito.

Basso in altezza, e sì in condotta rozzo
che di lui avrà a dir un vecchio saggio
ch'ei è la feccia che risale 'l pozzo.

Alla res publica faran oltraggio
grazie a oppositori vili e egoisti
lui e i cani suoi di servitù ostaggio."

Così Virgilio, e poi: “Tu no l' 'ncontrasti:
la terra ancor non ne è infestata,
chè ancor non son a bastar li tempi guasti.

Più che 'l papa cui dannazion è già data
pria ch'ei muoia, potè il marran che vedi,
cui anima secoli ante è disgraziata.

Salvator! Se a Bonifazio concedi
che di sua anima corpo ancor sia covo
ma già per essa prepari e provvedi,

Per questo verme tu' scelta io approvo
d'anticipar in Inferno su' presenza
chè giammai fior può nascere da rovo.”

E io: “O virtuoso fattor di scienza,
dacchè di Lucifer scendemmo il petto
e volgemmo le spalle a su' presenza

Lasciando del dolor d'anime il tetto,
non dovrem star calcando il suol del monte
ov'om con fatica apprende a ser retto?

V'è fin a ciò ch'inizia con Caronte?”
Il tuo è dubbio di cui Ii giusti sanno 
che desean ver il ben all'orizzonte.

Diavolo è mal ma sopra tutto inganno,
quindi non ti meravigliar che 'l cane
sotto lui stia, e sia di suo cul panno.

Costui che in vita di bocca toglie il pane
per piazzar illusion, frode e menzogna,
mangi il frutto di sue promesse vane!”

E m'invitò serio a ver la gogna.
Facil m'era creer la fin d'Inferno
Chè 'l fetor era del fondo de la fogna.

Satan prigionier del gelo d'Inverno
giacea com'i' dissi terga all'aère
ficcato in suol, col fianco a far perno.

E dall'abisso di su' brun sedere
figura d'uom emergea, sì 'ncastrato
che di lui miniatur facea vedere.

E vì con capo di sudor perlato
che 'l cul del dannato fiotti di stabbio
spargea, sì che l'antro era segnato.

Òmini e donne con far caparbio
stavan nel punto ov'il letam piovea
a ber con voga l'elemento sgorbio.

E (ma io era sicur ch'era) parea
che 'l corpo del fellon vuoto era
e che Satan del vil strumento facea.

Ruffiani son, che contornan la fiera
intenti a furto di beni e verità
e facil dame a completar la schiera.

Dimmi o Virgil, se quanto penso è realtà.”
Ei annuì con espression d'om ferito
in cui disgusto cancella ogne pietà.

Poi con far che no gli avria tribuito
misesi a maledir il tristo branco:
"Mangiate d'essa popol maldito!”

E quel tra i cani che men era stanco:
"Fatti fummo per viver come bruti,
per leccar il cul del re finch'è bianco.

Intelletti siam, al poter venduti
pe' offrir di balle un pien a la gente
sì che venerin quel che li ha fottuti.

Tra noi e le donne lo scarto è niente,
che pe' denari decidon d'offrirla,
per ciò facciam con elle insiem coerente.

Menzo Lengua è mi nome. Pe' servirLa!”
Tempo non fece il servo felice
a sozzar l'Ade con l'ultima ciarla: 
 
tosto cangiò su forma meretrice
pe' lasciar di carne cumul di sterco
substanzia che a el meglio s'addice.

Per tu lingua uso non è alterco
ma lusinga, offesa e nascondimento.
Mirati ridotto a feccia di porco!”

Ciò dissi, e poi venni a intendimento
che temp'era per noi di salir ormai
e feci su mì duca affidamento.

Quand'Italia al fondo sbatte e par che mai
d'esso s'accontenti, ma scava e freme
com'a voler goder dei peggiori guai,

lì è 'l punto in cui terror 'ncontra speme
e 'l popol ripudia l'anima imbelle
per formar di mille voci unico insieme. 
 
E' 'l canto de' liberi e dell'anime belle.
Cinque d'esse ne verrai per iniziar”
diss'ei; e uscimmo a riveder le stelle.

martedì 19 marzo 2013

IL CONSUMISMO CHE SI FA VITA: IL CASO DI APPLE

(Difficoltà: 4,5/5)

"Una volta tanto, una normale mela!"
La prima fase della dominazione dell'economia sulla vita sociale aveva prodotto una evidente degradazione dall'essere all'avere. [...] La fase presente […] conduce a uno slittamento  generalizzato dall'avere all'apparire”.  
(Debord, Società dello Spettacolo, §17)

Qual è il vero segreto del fenomeno Apple? La qualità dei prodotti? Il design? La funzionalità? No, non è nulla di tutto ciò. La pubblicità, il suo giocare con l'immaginario del potenziale acquirente, e nient'altro, è il segreto del successo di Apple. Il marchio Apple si è insinuato, nel corso degli anni, in innumerevoli film e show televisivi, in quello che viene definito in gergo “product placement”. Secondo questo articolo (link), nel solo 2011 i prodotti Apple sono apparsi in qualcosa come 891 show televisivi americani e nel 40% dei film campioni d'incasso. La presenza di Apple nei film, nelle situation comedy e negli show televisivi è di una costanza quasi opprimente.


Messaggi Subliminali

Comprensibilmente, Apple non parla volentieri di questa opera di colonizzazione dell'immaginario televisivo e cinematografico. La pubblicità surrettizia di queste "apparizioni" rispecchia appieno la natura del messaggio pubblicitario negli spot ufficiali. E' chiaro che in entrambi i casi si gioca sulla soglia del subliminale, del mostrato ma non detto. Quel che conta, in definitiva, è semplicemente l'apparire del logo, la sua riconoscibilità, l'instaurazione di una pervasiva sottocultura del consumo, non certo l'elencazione delle caratteristiche tecniche e funzionali del prodotto. Perchè quindi proprio Apple dovrebbe allora confessare la sua strategia?
Nella sua recensione del film 88 Minuti, dove il protagonista Al Pacino, uno psichiatra professore universitario, deve scoprire l'autore di molteplici efferati omicidi, il blogger-critico cinematografico Scott Telek (sito: Cinema de merde) ha il merito di notare un particolare oltremodo illustrativo dell'inusitata aggressività di questa strategia. Si esamini questo fotogramma tratto dal film: 

Scena da "88 Minuti"


E' parte di una scena dove è possibile constatare che praticamente tutti gli studenti presenti nell'aula dove Al Pacino sta tenendo una lezione hanno dei computer Apple. L'unica a preferire un computer Dell (al tempo il maggior competitor di Apple per i computer sul mercato americano) è la ragazza in primo piano, che non a caso si scoprirà alla fine essere il killer in questione!


Pubblicità Vecchia e Nuova

Vi fu un tempo in cui la pubblicità consisteva nell'asciutta illustrazione delle qualità e dei benefici materiali di un dato prodotto, come nell'esempio a lato.
 L'elemento materiale e descrittivo non era ancora stato soppiantato da quello evocativo. Cosa si intende “evocare”, nella pubblicità moderna? Più realisticamente, qualità che l'oggetto non possiede, o che vengono esagerate; più “letterariamente”, ideali di libertà, di espressività artistica, di standing sociale e quant'altro, che il possesso dell'oggetto garantirebbe. Apple è specialista nella coltivazione dell'effimero a nutrimento della sua popolosa “community” di consumatori.
Ecco il confronto fra due prodotti della stessa categoria merceologica, ma appartenenti a ere diverse:

Una vecchia pubblicità di un giradischi


La pubblicità dell'Ipod


La pubblicità a sinistra si prodiga nell'elencazione delle caratteristiche tecniche, reali e tangibili del prodotto. Nulla di tutto questo in quella a destra, che punta tutto sull'evocazione di un indefinito spirito "trendy".  
Oggi, l'oggetto in sè è quasi inessenziale per la campagna pubblicitaria che lo riguarda, al punto infatti che a volte non vi appare nemmeno o vi appare solo alla fine o quasi incidentalmente (tipicamente nella pubblicità dei profumi: qui un esempio). La pubblicità diventa allora un discorso con se stessa: è una pubblicità che si riflette sull'oggetto ma non lo riflette. L'oggetto viene trattato quasi come un'appendice materiale che disturba lo slancio onirico, il trasporto estatico del consumare. L'oggetto potrebbe anche non apparire, nello spot: le sue caratteristiche materiali (se sia più buono degli altri, o più comodo, o più salutare ecc.) interessano sempre meno. E' il trionfo della "spiritualità" della merce, il suo ascetismo blasfemo: l'apparenza vuota di contenuto, la parodia della metempsicosi come processo di emancipazione dello spirito dall'oppressione della materia.
Quando, agli albori della società consumistica, si diceva che la pubblicità è “l'anima del commercio”, ciò rimandava comunque all'oggetto che si voleva piazzare sul mercato: la pubblicità serve per “vendere” l'oggetto, è solo un mezzo per uno scopo che ha al centro l'oggetto e il ritorno economico. Oggi quest'anima si è separata dal corpo e vive una vita propria: la pubblicità è l'oggetto. La creazione di uno status, di una cultura, di un trend si vogliono il vero scopo e non può meravigliare allora che molti dei protagonisti dei fenomeni consumistici più dirompenti siano anche quelli che vengono definiti “guru”, e la loro opera “missione”. Steve Jobs è uno di questi.


La Spiritualità della Merce è solo un'Illusione
 
Ma è solo questione di tempo prima che il cielo precipiti sui destini dell'oggetto di consumo, trascinando alla rovina una cultura che si sa già all'inizio con i giorni contati. Un discorso culturale che abbia come base la merce, infatti, si muove in perfetta sintonia con le vicissitudini del conto economico e dei capricci del mercato globalizzato. L'impalcatura cade nel momento in cui appare chiaro che tutto si fonda sul denaro. La spiritualizzazione della merce in forma di una cultura dell'appartenenza, fatta di concetti, di esperienze condivise, di un comune sentire e di slanci fideistici, si dissolve allora lasciando sul terreno i cadaveri di un'umanità delusa. All'improvviso, è chiaro a tutti che si trattava solo di un'illusione. Credendo di consumare liberamente l'oggetto, quest'Umanità consuma se stessa, nel momento in cui ha scelto di fare di questo oggetto parte della propria vita e dei propri ideali, nel momento in cui lo sceglie come obiettivo di un investimento ideale, spirituale e emotivo. E ciò avviene a ogni nuovo instaurarsi di una moda, di un trend, di un prodotto "in": ognuno di questi reca con sè un'eredità di morte che mette l'invididuo di fronte alla caducità della sua esistenza e alla futilità delle sue passioni.
Non lo si percepisce, perchè la società dei consumi opera sempre sotto anestesia, ma la verità è che con il ciclico perire delle merce, con la rottura insanabile del vincolo emotivo che ci legava a essa, viene meno una piccola parte del nostro essere, che si espone sempre più indifeso, innecessariamente, al sentimento della caducità e della morte. E con sempre meno entusiasmo si seguiranno nuovi percorsi di fede, che condurranno a nuovi livelli di cinismo e di anestesia spirituale, a nuove tappe di abbruttimento consumistico.


venerdì 15 marzo 2013

FENOMENOLOGIA DEL FALSO SPETTACOLARE: L'ELEZIONE DI PAPA FRANCESCO

(Difficoltà: 3,9/5)
Papa Francesco I. O solo Francesco?
“La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale.” (SdS, §8) 
“Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.” (SdS, §9). 

Questi enunciati da “La Società dello Spettacolo” (Guy Debord, 1967), danno la summa paradigmatica di ciò che è lo spettacolo: la vita stessa per ciò che si è fatta, sequestrata dal potere falsificante dell'immagine, all'interno di un mondo messo sotto-sopra, dove l'immagine è l'unica cosa di reale e la realtà è evaporata in una serie di immagini. In tutto ciò, i media sono solo la manifestazione più apparente dello Spettacolo (cfr. Sds, §24), che è di per sè l'infinita articolazione della menzogna sulla vita e sui rapporti sociali, l'autocertificazione di un potere che si vuole onnipresente ed eterno.
Quando i media parlano della Chiesa, quando cioè le manifestazioni più tradizionali dell'autoritarismo spettacolare s'incontrano con i suoi cantori, allora il rovesciamento del rapporto tra immagine e realtà si appalesa con irruenza atterrente, e solo la teoria critica, la critica marxiana dello Spettacolo, può lacerare il velo di Maya. L'elezione di un papa in un tempo di crisi politica, economica e morale (dentro e fuori della chiesa cattolica) doveva necessariamente implicare un surplus di nascondimento, a copertura dell'ennesimo tentativo di riorganizzazione del potere spettacolare. Circostanze eccezionali richiedono menzogne eccezionali o, se si preferisce, un surplus di ideologia. Ma è proprio in questi momenti che lo Spettacolo apre il fianco alla teoria critica. Proverò qui a isolare alcuni punti rivelatori nel dibattito succedaneo all'elezione a papa di Bergoglio, ma non prima di aver lanciato un monito, e cioè che il caleidoscopio fenomenologico di nascondimenti e menzogne mediatici non può ricevere senso che da un unico concetto: il potere dello Spettacolo.
  1. La scelta del nome Francesco è il segnale del ritorno a una dimensione più spirituale, più povera.” (De Bortoli, min. 6:40). Papa Francesco di francescano ha solo il nome. C'era un candidato-papa francescano, ma non è stato eletto: si chiama Sean Patrick O' Malley ed è statunitense. Se si avesse voluto dare un segnale vero sul versante di una riforma nel senso della moderazione delle aspirazioni temporali della Chiesa (per es. l'abolizione dello IOR e la sua sostituzione con una banca etica), si sarebbe eletto un francescano vero, avendolo a disposizione. Invece si è optato per una rivoluzione nominale, quindi una rivoluzione di facciata, quindi una controrivoluzione.
  1. ... un ritorno alle origini, al Vangelo, all'Annuncio, alla missione di una Chiesa disincarnata dal potere e dalle sue pompe.” (Ezio Mauro). Nel XVI sec. la nascita dei movimenti protestanti scosse la chiesa cattolica, che reagì in due modi complementari ma eterogenei: a) avviando un processo di riforma interna; b) avviando un processo di controriforma (per la ri-cattolicizzazione dei territori caduti in mano al protestantesimo (articolo Wiki). L'ordine dei Gesuiti, fondato nel 1534 dal nobile ed ex-soldato Ignazio di Loyola, si pose in prima linea nell'opera di restaurazione anche territoriale dell'influenza della Chiesa. Organizzati militarmente, i Gesuiti si votarono  all'assoluta fedeltà e obbedienza al papa e si distinsero per l'aggressività con la quale perseguirono gli obiettivi della Controriforma. La scelta di un gesuita è quindi la scelta che più di tutte segnala un arroccamento della Chiesa su posizioni reazionarie, come già 450 anni prima. L'esigenza di una riforma profonda della Chiesa che si richiami alla riscoperta dell'autentico messaggio evangelico è, allora come ora, un affronto alle mire temporali delle alte gerarchie vaticane. Più degli aneddoti a edificazione di un'immagine evangelico-pauperistica del nuovo papa (egli si sposta in metropolitana, bacia i piedi dei poveri ecc.), conta la storia personale e quella dell'Ordine da cui il nuovo papa proviene. L'elezione di un siffatto papa è un falso cambiamento stante un ulteriore fattore, semplice e conclusivo: il principio gesuita dell'obbedienza incondizionata al papa, che fa sì che non vi sia rottura, bensì continuità con il papa precedente.
  1. Il messaggio di cambiamento – come abbiamo visto tanto illusorio da convertirsi nel contrario – che si è voluto dare con l'elezione di papa Francesco è l'indizio più lampante del fatto che le dimissioni di papa Ratzinger non furono causate da motivi di salute, come tanto si tenne a dire, cioè non furono spontanee ma “spintanee”: il papa tedesco fu indotto alle dimissioni perchè il crollo di credibilità della Chiesa dovuto all'accavallarsi di scandali e soprusi (pedofilia, IOR, conferma dei privilegi fiscali a dispetto della crisi economica mondiale, ecc.) imponeva un'urgente ristrutturazione della facciata della chiesa romana.

Conclusione

E' sorprendente come nemmeno le personalità più orgogliosamente laiche, intellettualmente libere e storicamente colte, come Paolo Flores D'Arcais (vedi, ma anche la trasmissione della Gruber), abbiano potuto afferrare la verità dietro l'apologetica asfissiante e unisona delle analisi seguite all'elezione di questo papa, quando il filo rosso della conoscenza storica avrebbe invece dovuto strangolare il crogiuolo di menzogne fin nella culla. Come scrive Debord nei Commentari: "La prima intenzione della dominazione spettacolare era quella di far sparire la conoscenza storica in generale; prima di tutto pressochè tutte le informazioni e tutti i commenti ragionevoli sul più recente passato." (Commentari Sulla Società dello Spettacolo, §VI). Evidentemente, laddove la memoria non cade vittima dello stillicidio, subisce comunque la spinta conformistica della propaganda spettacolare.

Ps.: si era a lungo parlato della possibilità di eleggere finalmente un papa italiano. Il papa è stato scelto sud-americano perchè in quelle terre l'effluvio emorragico di fedeli – in direzione di comunità evangeliche, sette pentecostali ecc. - assume i contorni dell'emergenza. Tuttavia, in ossequio alla logica del controllo spettacolare che mira ad accontentare tutti senza soddisfare nessuno, il nuovo papa ha vicine radici italiane.

Dovestaindante

lunedì 11 marzo 2013

LA DIPENDENZA COME LA VEDO IO

(Difficoltà: 3,6/5)

Una ciocco-dipendenteAlcuni esperti tendono a restringere il campo di ciò che può dare dipendenza. Altri invece propendono per un allargamento dell'ambito (cfr. qui). E' chiaro al senso comune che tutto ciò che dà piacere può dare dipendenza. Questo è parte della natura umana. Ma se consideriamo l'habitat umano, nella fattispecie i condizionamenti sociali e l'operare delle multinazionali, allora il campo si allarga ancora di più. Infatti: la sigaretta è fra le cose che più danno dipendenza, eppure le prime boccate sono per tutti qualcosa di sgradevole. Lo stesso dicasi per l'alcool: è impossibile negare che vino, birra e grappa facciano inerentemente ribrezzo (il gusto dell'amaro è presente in natura per segnalare qualcosa di potenzialmente velenoso). Eppure molti fumano e bevono: per effetto del condizionamento sociale (queste attività rendono “cool”) ma anche delle sofisticazioni dell'industria (l'industria del tabacco è da sempre accusata di impregnare le sigarette di additivi per aumentare la dipendenza nel consumatore). Quindi c'è qualcosa che dà dipendenza “naturalmente”, perchè è buono ai sensi umani, e questo rientra nell'istinto di conservazione o procreazione (cibo, sesso ecc.). Ma c'è anche qualcosa che dà dipendenza per via più o meno artificiosa e artificiale, che ripugna ai sensi, e che fa leva sull'istinto di morte e di autodistruzione.


Piacere irrisolto, dovere incompiuto

La distinzione fra la dipendenza da cose che si consumano e i comportamenti che configurano una behavioral addiction, è più qualcosa di accademico che di reale. Anche il consumo del cibo assume, varcata la soglia della normale fisiologia, un tratto compulsivo che sposta il fulcro del problema dalla materia (il cibo) al gesto (l'atto di abbuffarsi): il bulimico si ingozza di un cibo che non vuole veramente, e che poi espelle con il vomito. Verrebbe da chiedersi se l'intero fenomeno della dipendenza non si esaurisca in fondo nel punto in cui la dimensione fisiologica trapassa in una dimensione comportamentale. Sta di fatto che la dimensione compulsiva del gesto ridimensiona di molto il piacere che si può ricavare dall'atto fisiologico: atti come l'alimentarsi, l'avere sesso, la comunicazione (social network) o il gioco (videogiochi, videopoker) possono diventare coazione a ripetere, riflessi semi-condizionati che vengono eseguiti quasi in trance e che si travestono paradossalmente da senso del dovere.
Sono del resto gli studi sulla dipendenza a farci propendere per una teorizzazione olistica della stessa: tutto può dare dipendenza, se ripetuto a sufficienza. Quando non sussiste l'elemento del piacere, c'è pur sempre il “senso del dovere” a giustificare l'atto coattivo. A tutti è capitato di sorprendersi a pensare di aver fatto il proprio dovere dopo aver ingurgitato l'ultimo bicchierino della giornata, o aver fumato l'ultima sigaretta, o aver fatto l'ultimo post su Facebook, o aver completato l'ultima partita a Tetris o a Buzzword. La frequenza patologica di queste e altre attività da un lato toglie loro quasi ogni piacere; dall'altra, la stessa coazione a ripetere fa percepire l'attività come un dovere da espletare. Il piacere si identifica con il dovere in modo tale che il primo viene tolto di mezzo e il secondo è fin dal principio e per natura completamente falsato. Il dovere è dato dall'inseguimento di un piacere che non si può afferrare, quindi anche il dovere non è espletabile. Alla frustrazione fisica di un piacere irraggiungibile si aggiunge quindi la frustrazione morale (anzi pseudo-morale) di un dovere costitutivamente inespletabile.


Conclusione

Io penso che ognuno di noi dovrebbe interrogarsi sulle eventuali fonti di dipendenza (che possono essere le più impensabili e disparate) nella propria vita e farsi domande come: perchè sto facendo questo? Mi dà veramente piacere? Qual è la mia “dose” di tolleranza oltre la quale il piacere lascia il posto a una ripetitività vacua e compulsiva? La soddisfazione morale che provo nel fare una cosa trova la sua giustificazione nella cosa stessa o è mal riposto? Come abbiamo visto, la consapevolezza morale passa anche attraverso la consapevolezza del proprio corpo e delle sue pulsioni

Addiction
 

martedì 5 marzo 2013

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9990

(Difficoltà: 2,3/5)

QUANTO E' CATTIVA LETTERATURA, CHE SI SCRIVE TUTTAVIA...

FFabio Volo
Se c'è una cosa che mi fa incazzare sono i titoli dei libri che si scrivono oggi. Avete presente le copertine tutte colorate dei libri che aspirano allo status di best seller? Uno stratagemma grafico per attirare l'attenzione, ovviando così alla frequente mediocrità del contenuto. Ecco, la nuova frontiera è quella dei libri con titoli altisonanti, che uno scorgendoli pensa: “Ma cosa vorrà dire? Aspetta che lo compro per capirci meglio.” C'era un tempo (pre-consumistico) nel quale l'autore era sicuro del valore della sua opera e del favore di una platea vasta. Può darsi che il problema oggi stia nel voler accalappiare un lettore sempre più distratto, che rischierebbe altrimenti di sfogare la sua voglia di intrattenimento su altri lidi. Ma il problema sta proprio nella parola “intrattenimento”, e aimè copertine psichedeliche e titoli ruffiani sono solo la punta dell'iceberg di una letteratura che sta esalando gli ultimi e che non rifugge nessun compromesso con il suo tempo. 


Se.Po.Mi: Sigla di una Letteratura allo Sbando

Ecco alcuni titoli incriminati (con tra parentesi in corsivo un mio acidulo commento):
"Entra nella mia vita" (basta che sia chiaro dov'è l'uscita)
"Ogni angelo è tremendo" (Ma vai dove ti porta il cuore, va!)
"Noi siamo infinito" (mi vien da buttarmi oltre la siepe)
"Mancarsi" (a fuoco)
"La meraviglia della vita" (stò tizio già pregusta vendite record)
"L'eleganza del riccio" (e l'autore vestì smoking - fumato)
"La solitudine dei numeri primi" (perchè così non possono essere secondi a nessuno)
"Il cacciatore di aquiloni" (almeno: in zona non faunistico-venatoria? Sai, per la suspence...)
"Un sacchetto di biglie" (quelle del mio già si stanno rompendo)
"Il colore del latte" (alle ginocchia)
"Ti prego, lasciati odiare" (… che si sta facendo tardi)
"Al di là di te" (storia di uno che stava sempre in mezzo ai piedi)
"Un mare di silenzio" (poesia allo sfatto puro)
"Sia fatta la tua volontà" (anche perchè se dovessi fare la mia...)
"Vite che non sono la mia" (un po' dispersivo, non ti pare?)
"Fai bei sogni" (vai tranquillo, già mi sto addormentando)
"La piramide del caffè" (proprio adesso che stavo facendo bei sogni...)
"Il diario di velluto cremisi" (che sicuramente vale di più di quel che c'è scritto dentro)
"Se ti abbraccio non aver paura" (quella cosa dura che senti è solo la versione tascabile di questo libro)
"Bianca come il latte, rosso come il sangue" (nero come la noia)
"Nessuno sa di noi" (che l'ignoranza continui)
"Il suo nome è passione" (piacere il mio è Gringo)
"Tenera è la notte" (che si taglia con un grissin)

Cosa si evince da questo campione di titoli da me proposto? Che la circonvenzione del potenziale lettore a partire dall'elaborazione del titolo si basa sull'impiego di tre categorie:
  1. Sensazionalismo
  2. Poetismo
  3. Minimalismo
Le tre categorie si mescolano l'una con l'altra. Per esempio, minimalismo e poetismo si usano per creare sensazione, la poesia si appoggia a sua volta spesso su un minimalismo impressionistico (poetica del quotidiano, intimismo spicciolo ecc.) Essendo il minimalismo spesso una caratteristica del pensiero femminile, sembrerebbe di poter concludere che lo sviluppo descritto sia dovuto all'ingresso dirompente delle donne nel mondo della narrativa, ma questa ipotesi va a solo beneficio di uno studio della genesi del fenomeno, dal momento che ormai la tendenza è trasversale tra i due sessi.


Si Stava Meglio Quando Si Stava Meglio

Purtroppo, l'unica categoria di cui ci sarebbe bisogno è quella del descrittivismo. Tutti i più grandi romanzi della storia dichiarano il loro contenuto già nel titolo, in modo più o meno inequivocabile. Un tempo si scriveva il romanzo, e poi prima di mandarlo in stampa si tirava fuori un titolo essenziale. Oggi quando si formula un titolo accattivante si è già a metà dell'opera, e il titolo è un artificio fine a se stesso, che non anticipa nulla nell'immaginazione del potenziale lettore, nessuna indizio di dramatis personae o di topologia narrativa (dove si colloca il romanzo, se è dramma o avventura o commedia ecc.), insomma nessun contenuto definito, anche perchè spesso il libro stesso ne è sprovvisto. La scelta di un titolo che strizza l'occhio alla sensazione, alla poesia o al minimalismo impressionistico è qualcosa di solo apparentemente innocente, in quanto il libro intero diventa prigioniero del titolo, e si riduce spesso ad essere un'accozzaglia di vaghezze poetiche, pateticamente affettata e succube dei manierismi del marketing letterario. Mira troppo spesso non a descrivere, ma a evocare. Evocare cosa? Qui sta il problema: si abdica alla solidità dell'impianto narrativo, alla storia, a favore di voli pindarici sentimentali e intimistici, dove il rapporto con la realtà ha senso solo quando può appunto permettere siffatti voli. La profondità dell'introspezione, quando è staccata dalla realtà, è solo una finzione, una “profondità di superficie”. Quand'anche il libro avesse una storia appassionante, vissuta ecc., il titolo non renderebbe a ciò giustizia.
Si confrontino ora i titoli sopra indicati con quelli di questi classici della letteratura mondiale:

"I Fratelli Karamazov"
"L'amante di Lady Chatterley"
"Il Conte di Montecristo"
"Il Fu Mattia Pascal"
"I Miserabili"
"Faust"
"Il maestro e Margherita"
"L'idiota"
"Anna Karenina"
"La coscienza di Zeno"
"Tutti i racconti del mistero, dell'incubo e del terrore"
"Il grande Gatsby"
"Il giro del mondo in ottanta giorni"
"Il ritratto di Dorian Gray"
"L'isola misteriosa"
"Il dott. Jekyll e mister Hyde"

e si noterà la differenza fra cattiva e buona letteratura. Già a partire dal titolo. Un bel risparmio di tempo, no?

La prossima volta, fateci caso!
Camaleons Centrans

ZUPPA DI ZOMBIE: "Gambe in Spalla"

Gambe in Spalla