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Userei il termine “vecchiezza”
per distinguerlo da quello di “vecchiaia”. Questa è la senescenza del corpo,
quindi l’invecchiamento fisiologico, mentre la prima può considerarsi la
senescenza dello spirito, che come tale può benissimo riguardare anche i giovani.
Dei sintomi della vecchiaia già sappiamo. Uno dei più grandi sintomi della
vecchiezza – anche in un corpo sano e prestante – è invece la scarsa propensione al cambiamento. Di
più: l’arrendevolezza alla sensazione che nulla possa cambiare, che ogni sforzo
per il cambiamento sarebbe inutile.
Anche qui, la conoscenza aiuta lo spirito, e mi riferisco in
particolare alla conoscenza storica, la quale ci dice che, nei fatti dell’uomo,
nulla dura per sempre, nulla è eterno.
La convinzione che nulla possa
cambiare è un riflesso della propria inettitudine, a fronte della quale il
fatto che uno non possa o non voglia mettersi in movimento è affatto
irrilevante: che uno non possa mettersi in moto per deficit motori o che decida
di non farlo per scarsa volontà e spinta spirituale, il risultato è il medesimo;
qui, la distinzione tra vecchiaia e vecchiezza non esiste dal punto di vista del
risultato.
E proprio l’attivismo, il muoversi, il cercare, l’esplorare, è il
miglior antidoto alla vecchiezza, perché così noi proviamo il cambiamento sulla
nostra pelle, e anzi meglio ancora: un
cambiamento nella nostra vita indotto dalle nostre azioni. Anche qui,
l’analisi della terminologia ci viene in soccorso. “Attivismo”, infatti, si distingue dal termine “attività”: è un atteggiamento
che denota una vivacità dello spirito. Ciò non vuol dire tuttavia che esso si
possa confinare all’attività intellettuale, perché mens sana in corpore sano: l’esplorazione, l’apertura dei confini,
non può essere solo mentale, ma anche mentale in quanto fisica. L’apertura
mentale, quella che ci fa percepire la realtà del cambiamento possibile, è ancilla dell’apertura fisica al mondo,
più di quanto avvenga il contrario. Dopotutto, i maggiori pregiudizi e la
propaganda hanno sempre avuto come veicolo i libri, i film, le news, e tutto
ciò che relega la persona a semplice immobile spettatore, a passivo fruitore di
verità altrui. Occorre invece muoversi, camminare, fare, lavorare, agire e cercare
l’esperienza diretta, e non solo leggere, ascoltare e vedere. Occorre insomma
vivere la propria vita e cercare la propria verità, su se stessi e sul mondo,
invece di farsi vivere la propria vita da altri, e di farsi dettare le verità e
le convinzioni da altri, senza aver avuto un’esperienza del mondo, se non eterodiretta
e preconfezionata. E la visione del mondo che viene così assorbita, non può che
essere quella facente leva sull’ineluttabilità
dello status quo: perché coloro che, nei maggiori media, ci educano sul
mondo sono anche quelli che hanno tutto l’interesse acché questo non cambi di
una virgola, perché chi detiene il potere detiene anche la possibilità di
diffondere la propria visione del mondo, e di ricreare e revisionare la Storia
per farla apparire come un processo che culmina nel momento attuale, giustificandolo
e cementandolo. Così, ci viene detto che l’euro
è eterno, e che il semplice porlo in discussione è affine al sacrilegio,
laddove invece la Storia è piena di unioni monetarie che sono esplose rivelando
le proprie contraddizioni. Ci viene detto, inoltre, che la globalizzazione è un fenomeno epocale, la nuova svolta del mondo,
tanto contrastabile come lo è l’espansione dell’Universo, salvo poi constatare
che basta un presidente degli Stati Uniti che decide di fare gli interessi del
proprio paese, e improvvisamente l’onnipotenza semi-divina di questa “svolta epocale”
si rivela per quello che è: nella sostanza, l’epifenomeno di una guerra commerciale silenziosa
sferrata dalla Cina al mondo, e del quale il mondo - pur fra mille resistenze -
inizia a prendere coscienza. Ci veniva detto, infine – ma potremmo continuare
fino a domani -, che l’immigrazione
incontrollata è un fatto ineludibile al quale l’Europa deve rassegnarsi,
aprendosi all’invasione di culture incompatibili con il proprio sistema di
valori, salvo poi scoprire che basta un semplice “no” da parte di un singolo
ministro italiano per stroncare il fenomeno una volta per tutte.
Il cambiamento è insomma un concetto osteggiato, demonizzato, reso
improponibile fino al dileggio - a reti e giornali unificati - di chi osa
accennarvi. Così, intere generazioni di spettatori dei vecchi e dei nuovi media
crescono nell’idea che esso sia impossibile. Ed esso lo è certamente, alla
stregua di una profezia che si autoavvera, se noi decidiamo di farci
somministrare la visione del mondo in forma di propaganda iniettataci direttamente
negli occhi, senza mobilitarci per viverlo in prima persona. La convizione
della reale possibilità del cambiamento è, invece e appunto, un prodotto del ricercarlo e
implementarlo nella propria vita: a partire dalla realtà del cambiamento nella
propria vita è possibile interiorizzare la possibilità del cambiamento nel
mondo. Troppi sono invece coloro – soprattutto giovani senza arte né parte –
che puntano a “cambiare il mondo” (senza avere la più pallida idea di ciò che
questo voglia dire) prima ancora di cambiare se stessi. Perorare l’impegno per il cambiamento dello status quo sociale senza
prima profonderlo per il cambiamento della
propria vita significa in sostanza
demandare il cambiamento agli altri. Per questo l’operato di questi
“attivisti” si riduce sempre a più o meno sciocche manifestazioni
e dimostrazioni per “richiamare l’attenzione” su questo e su
quello. Cambiare il mondo significa
conoscerlo, e non si può conoscerlo senza prima conoscere – e quindi
cambiare - se stessi. L’azionismo di questi giovani, che amano definirsi “attivisti”, è in realtà il velleitario mobilitarsi
di nullità paracule e paraculate, un festival della vacuità ideale e dell’esibizionismo
pseudo-virtuoso, che si risolve nel trasferire la responsabilità del cambiamento
proprio e del mondo ad altri. Non deve meravigliare quindi che, assieme
all’azione, essi deleghino agli altri anche la propria conoscenza, che dovrebbe
essere premessa di questa azione: troppo pigri per pensare come per agire, essi
sono sempre alla ricerca dell’imbeccata su cosa e come pensare. E’ fatale
quindi che essi finiscano per farsi strumentalizzare dai mass media, a loro volta piegati alla volontà di un’establishment politico ed
economico che in questo frangente storico sembra aver di mira la
destabilizzazione delle società occidentali. Manipolati come delle marionette di latta, essi sono indotti a
scambiare per cambiamento ciò che è di fatto una lotta per il mantenimento
dello status quo: a questo li conduce la loro cronica e ignorante ignavia..
La Storia quindi ci fa capire che nulla è lì per restare, che tutto,
anche il potere “divino” degli “imperi eterni”, è destinato a dissolversi come
neve al sole; e la conoscenza storica è importante e non va sottovalutata. Ma
la Storia può essere manipolata: i fatti e le cause possono essere nascosti, sfigurati,
riordinati, strumentalizzati, “naturalizzati” come un impianto eterno di corsi
o ricorsi che restituiscono il senso dell’inutilità del cambiamento in senso
liberale e anti-gerarchico. La vera convinzione della possibilità del
cambiamento – al contrario - ci viene dal vederlo implementato, di nostro
pugno, nella nostra vita. In questo, l’atteggiamento
del fanciullo è il modello da tenere sempre presente. Il bambino non ha
esperienza del mondo e quindi ragiona in
termini possibilistici: tutto è per il lui possibile, ed è per questo che
egli rimane così affascinato dalle storie fantastiche e dai supereroi dei
fumetti. Egli si mette spesso anche in pericolo, perché tende a esplorare al di
fuori della sua “comfort zone”: nella
foga di esplorare le possibilità proprie e del mondo, rimane poco spazio per
l’idea di una stasi da raggiungere per sempre. Si confronti questa mentalità
con quella degli studenti di college americani (i cosiddetti “social justicewarrior” (1), pseudo-attivisti di sinistra) che rivendicano per se stessi,
anche in spazi pubblici teoricamente aperti a tutti, come le università
appunto, “safe zones”, cioè spazi protetti dal confronto con persone e –
soprattutto – da idee e conoscenza di fatti che confliggano con la propria
visione del mondo. Spazi, insomma, di auto-segregazione
fisica e ideale, per la cui difesa da intrusioni esterne non si esita a
usare e giustificare la violenza attraverso il proprio braccio armato, chiamato
“Antifa”. Qui si è oltre la
vecchiezza, si è direttamente nella morte: la morte spirituale di chi ha per
sempre rinunciato alla possibilità di conoscere se stessi e il mondo, e quindi al
cambiamento.
(1) "The Totalitarian Doctrine of 'Social Justice Warriors", di Cathy Young, 02/02/2016, The Observer.
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