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Ricordo che quando ero ragazzino (intorno ai dieci anni) mi capitava di guardarmi allo specchio e di non riconoscermi nell'immagine che questo mi restituiva. Mi chiedevo: "Ma chi è quello?" Chiaramente, in quella domanda non era da leggersi un vero impulso a risolvere il mistero esistenziale dell'identità personale. Era piuttosto un temporaneo stato di dissociazione: mi dissociavo dalla mia apparenza fisica. Era come se mi interrogassi sulla situazione paradossale per cui la nostra apparenza fisica (in particolare, quella del volto) ci appartiene, eppure siamo, fra tutti, quelli che meno ne "fanno uso": nella quotidianità gli altri infatti ci vedono molto di più di quanto ci vediamo noi. Il narcisismo diventava allora inconsciamente una questione di riequilibrio, di ristabilire le proporzioni.
Era quello, forse, un primo tentativo di approdare a una domanda chiave, più profonda in senso esistenziale: "Chi sono io veramente?" Come per l'aspetto esteriore, infatti, la quotidianità ci spinge a porre anche il nostro essere al servizio degli altri in maniera sproporzionata, al punto che non resta più nulla per noi e ci sorprendiamo a chiederci se esistiamo veramente in quanto noi stessi, se abbiamo veramente un'identità tutta nostra, diversa da quelle, molteplici, che la società ci richiede.
Uno, Nessuno, Centomila
Pirandello aveva ragione, eccome: la nostra società ci
impone mille maschere. Quando andiamo al lavoro, mettiamo la maschera dell’impiegato,
del commesso, dell'istruttore, del manager ecc.; quando andiamo in chiesa, ci
mettiamo la maschera del timorato di Dio; quando andiamo allo stadio, ci
mettiamo la maschera del tifoso esagitato; se insegniamo ai bambini, ci
mettiamo la maschera del maestro integerrimo ma comprensivo ecc. La nostra vita
è un teatro fatto di commedie e tragedie, con noi protagonisti in questo o quel
ruolo. E anche quello di essere protagonisti è naturalmente un’illusione: lo
siamo indipendentemente da quello che facciamo o diciamo: potremmo anche stare sempre
zitti e non fare nulla, con solo gli altri a fare o dire tutto, ma siamo comunque
protagonisti perché tutto passa attraverso i nostri sensi, viene filtrato dai
nostri pensieri (se ne abbiamo), e solo noi potremmo narrare (se volessimo) quello
che abbiamo percepito o provato dentro di noi. Un ossevatore esterno, però, nemmeno
si accorgerebbe di noi: e saremmo come uno di quegli indistinti visi nella folla
di un film hollywodiano sulla Rivoluzione Francese.
Ma se noi ogni volta dobbiamo indossare un abito fatto di
convenzioni sociali (il maestro è socialmente stabilito che si debba comportare
così, il tifoso colà, il religioso in un altro modo ancora ecc.) cos’è quindi l’identità (individuale)?
L’identità è forse la somma di questi atteggiamenti esteriori? Siamo forse un
crogiuolo di ipocrisie senza alcun nucleo di verità? Un po’ atterrente come
prospettiva. Alcuni però dicono che, vabbè, in società sono richiesti alcuni
comportamenti, ma nel privato… lì sì che possiamo far valere la nostra vera
identità. Davvero? E cosa si intende per privato? Esiste veramente un confine
fra pubblico e privato nell’età dei social network, o anche prima? Ovviamente,
il coro dirà che per privato si intendono gli affetti, cioè la famiglia, i
figli, gli amici ecc. Ma il matrimonio è veramente questo trionfo di spontaneità
dove uno può “essere se stesso”, oppure è qualcosa di simile a un più o meno
fragile compromesso (tanto è vero che spesso fallisce e si divorzia)? Il
matrimonio è dopotutto un atto pubblico, qualcosa per cui si firma una carta
che poi fa a finire nel database di un’anagrafe. E nel rapporto con i figli?
Possiamo veramente affermare che quello del padre sia un ruolo che ci viene “naturale”
e che quindi riflette la nostra vera identità, e non piuttosto qualcosa che si
apprende attraverso l’esperienza? Forse ci portiamo dietro l'atteggiamento del padre in situazioni diverse da quelle che condividiamo con i figli? E che dire degli amici? Non è forse vero che se fossimo veramente "noi stessi", e cioè dicessimo tutto ciò che ci dà fastidio di questo o quell'atteggiamento, rischieremmo di perderli per ripicca, non essendoci tra l'altro alcun tipo di legame forte (es. giuridico, di sangue, sessuale ecc.) che solidifichi la loro presenza al nostro fianco?
"Chi Sono Io Veramente?
Vorrei comunque gettare un’ancora di ottimismo: l’identità individuale
esiste, e ci rende tutti diversi gli uni dagli altri, anche se in forma più o
meno accentuata. Essa è il frutto di esperienze pratiche e intellettuali, e
tanto più queste sono approfondite e varie, tanto più la nostra identità sarà
ricca e diversa, perché frutto dell’elaborazione personale di un maggior numero
di variabili. La società fa di tutto per impartirci ruoli che imprigionino
porzioni sempre più grandi della nostra vita in situazioni inautentiche nelle
quali dobbiamo esibire emozioni, pensieri e caratteri che non proviamo o che non ci
appartengono. Ma questi ruoli sono anche, se vissuti con lo spirito della
formazione continua e di una curiosità fanciullesca, anche una preziosa occasione
per aprirci al mondo e per elaborare visioni personali o personalissime su
tutto ciò che vi accade. L’identità è la visione che noi abbiamo del mondo, con
noi in esso. Ma si può parlare di un’identità – la nostra identità –
solo quando questa visione è il frutto di un’autentica elaborazione interiore e
personale, che implica anche il travaglio della messa in discussione di
posizioni precostituite. Quando viene a mancare tutto questo si può parlare solo di un’identità
fasulla, perché non individuale ma collettivamente indotta da operazioni di
indottrinamento.
L’identità è quindi una cosa che si costruisce: non solo – o
non tanto - in termini di sviluppo psico-sessuale e quindi in termini natural-evolutivi
(in questo caso, essa si fermerebbe con la cessazione dell’età della crescita, e le uniche differenze significative sarebbero circoscrivibili ai gruppi patologici).
La vera identità è quella che si forma in età adulta, attraverso la crescita
cosciente e intenzionale: è una questione di “visione”, un concetto meramente intellettuale.
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