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Il Vero Impegno sta nell'Essere Artefici del Proprio Destino
Una chiara spia di questa immaturità è nella continua tendenza, da parte dei giovani della sinistra, a calcare il tasto del vittimismo, e alla generica indole piagnona di persone in cerca di capri espiatori per una vita giovane ma già carica di fallimenti personali. Chi ha avuto la fortuna di crescere oltre l’adolescenza, sa che ognuno di noi è artefice del proprio destino, e che l’accampare scuse esterne è una tattica dei perdenti nati. Certo ognuno di noi nasce diverso, e la natura o l’ambiente sociale non sono egalitari: essi danno ad alcuni tutto, ad altri nulla. Il lato positivo di chi non ha nulla è che ha tutto da ottenere, e quindi ha un potenziale di stimoli virtualmente infinito; il lato negativo di chi ha tutto è che non ha nulla in più da ottenere, se non forse un po’ di più di ciò che già ha, e quindi rischia l’apatia e il disorientamento esistenziale. Il primo soggetto può essere l’artefice del proprio destino; il secondo – si prenda l’esempio classico del figlio nel cui destino già sta scritto che deve succedere al padre nell’azienda o nello studio d’avvocato – ha il destino già deciso per lui.
Quindi il lato
oggettivo – le condizioni ambientali - ha la sua importanza; ma ce l’ha anche
il lato soggettivo, cioè la capacità di reagire a una condizione sfavorevole
rimboccandosi le maniche.
Il giovane di
sinistra vive una condizione particolare: egli è spesso un privilegiato (l’esempio
offerto dai rampolli delle maggiori università americane tramutatisi in black
bloc e fascisti di sinistra – che si fanno chiamare, ironicamente, “Antifa” - è
lampante). Come fa quindi questa persona a giocare la carta del vittimismo, dal
momento che egli si trova più spesso che no dalla parte dei privilegiati della
società, dalla parte cioè di coloro che egli stesso definisce “sfruttatori dei
deboli” (chimandosene ovviamente fuori)? A dire il vero, questa ambiguità si
può un po’ applicare a tutta la storia della sinistra dalla Rivoluzione
Francese in poi, essendo l’appartenenza a sinistra, nella sua essenza, un modo
per esorcizzare il proprio essere borghese facendo finta di appoggiare le cause
di un’umanità oppressa della quale non si sa e non si vuol sapere nulla. Simili individui non possono fare gli interessi degli operai, dei braccianti e degli
immigrati, perché ciò mal si concilierebbe con gli interessi propri. Essi si
creano allora immagini idealizzate e ideologizzate di questi gruppi sociali,
immagini che sono completamente staccate dalla realtà. Tutto si muove sul piano
della fantasmagoria, dell’ideologia, ed è per questo che l’“azione” di questi “attivisti”
si esaurisce nei proclami vuoti, nel parolame più vacuo o nel manifestazionismo
teppistico.
"Vittimismo Proiettivo"
Veramente, come
fanno questi giovani, cui paparino paga una retta retta universitaria annuale da
70,000 $, a reinventarsi “baluardi” delle categorie oppresse? Come detto, ci
si muove sul piano della fantasmagoria, dell’apparenza. E ciò è da intendersi
letteralmente: basta colorarsi i capelli, attaccarsi anelli al naso, ricoprirsi
di tatuaggi, coprirsi la faccia con cappucci da terrorista dell’Isis e iniziare
a spaccare vetrine o a malmenare studenti conservatori, e il gioco è fatto,
qualcuno arriverà a odiarli o a disprezzarli e cercherà di assicurarli alla
giustizia. Pensiamoci bene: anche il delinquente può, dal suo punto di vista, considerarsi
un “perseguitato” dalla polizia (una "vittima" di essa) laddove tutti noi sappiamo che egli è al limite
un “perseguito” dalla legge. Ma è proprio la più radicale illogicità a dettare le
regole del gioco: il rapporto di causalità (e cioè ciò che uno fa prima che la
gente cominci ad averlo in odio o la legge a perseguirlo) è l’agnello sacrificale
di questo autoperpetuantesi rituale. Possiamo chiamare questo atteggiamento “vittimismo proiettivo”:
ci si atteggia a vittime delle conseguenze del proprio essere carnefici. Il
gioco vale, naturalmente, anche quando la violenza (almeno quella fisica) non
ha luogo, o quando non si commettono reati: in questo caso, basta che uno si
renda disprezzabile per la sua volgarità, per la sua intolleranza per punti di
vista diversi dai suoi e per i suoi attacchi verbali, o che semplicemente tenda
a escludersi dal consesso delle persone decenti agghindandosi o truccandosi
come un “outsider”, e il gioco è fatto.
Chiunque, insomma,
può atteggiarsi a vittima, procurandosi così delle scuse per la propria
incapacità di ricercare un cammino fruttuoso e produttivo per la propria vita nella società, un qualcosa
che inevitabilmente richiederà sacrifici e responsabilità: basta porsi fuori
dalla società con atteggiamenti asociali, per agitare poi lo spettro della discriminazione
nei propri confronti. Il gioco è così fatto, e il ragazzotto di buona famiglia
può ora vantarsi di avere qualcosa in comune con i poveri, con gli sfruttati,
con le minoranze etniche e sessuali: c’è qualcuno che lo odia, che non lo
vuole, che lo discrimina e che si rifiuta di “integrarlo”. Ovviamente, si
tratta di una condizione completamente auto-indotta, e perlopiù con stratagemmi
affatto superficiali e di infima lega.
Conclusione: il "Vittimismo Proiettivo" è un Virus Opportunista
La tattica del vittimismo proiettivo non
appartiene certo solamente ai giovani militanti di sinistra dei campus universitari
d’elite, ormai sequestrati manu militari da un manipolo di professori
guru ex-sessantottini o figli (putativi) di tali, dei quali questi giovani studenti
costituiscono vociante seguito apostolico. E’ stata fatta propria anche dalle molte
minoranze, intente a esprimere con robotica insistenza il proprio malcontento
all’insegna di un vittimismo basato su falsi proclami (come quello che in
America viga ancora il “razzismo istituzionale”, o che esista l’“islamofobia”).
E’, insomma, la tradizionale e patologica tendenza della sinistra a proiettare
su altri responsabilità (o attributi negativi) che sono tutte proprie, un virus che ha intaccato la
società al punto da creare falde di divisione difficilmente suturabili. Il vero
tabù della sinistra, che è diventato a cascata il tabù di ogni minoranza
presuntamente “oppressa”, è quello dell’ammissione delle proprie responsabilità
alla base della propria condizione. Un atteggiamento, questo, che spingerebbe a
rimboccarsi le maniche per diventare artefici del proprio destino in una
società che di chance ne offre anche troppe e a persone che non lo meritano.
La
strada per diventare adulti è sempre la più difficile, e il rifugio nel tepore
di una condizione di eterna adolescenza sempre la cosa più allettante.
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