(Difficoltà: 3,7/5)
“Of all sad words of tongue or pen, the saddest are these: ‘It might have been.'”
—
John Greenleaf Whittier; Maud Muller - Pamphlet
Una vignetta di Altan |
Una delle discriminanti principali
della nostra società è il fattore-età. Siamo classificati in base
all'anagrafe forse più che per altre componenti della nostra
carriera civile, più difficilmente quantificabili (reddito, studio, lavoro, esperienza di vita).
Nel mondo del lavoro, persino il fattore-esperienza – peraltro
autentico totem di ogni selezionatore – nulla può di fronte
all'insorgere dei primi capelli grigi: in molte società, nella
maggioranza dei casi perdere il lavoro a 35-40 significa, dal
manager in giù, non ritrovarlo più. Anche sul piano individuale,
l'età di mezzo (diciamo dai 40 anni fino alla pensione) è
l'“età oscura”, un Medio Evo pieno di incognite. A nessuno
sembra interessare che proprio quella fascia d'età sia il punto di
congiunzione ideale di una freschezza mentale ancora presente e del
vertice dell'esperienza di vita e di mansione.
Ma ponendo da parte l'aspetto strettamente sociologico, la questione socialmente totalizzante dell'età, declinata sul piano della percezione individuale, può e deve essere ridimensionata. Parlando della mia esperienza personale, un'inesauribile fonte di rammarico è per me la constatazione di quante occasioni (di crescita, di carriera, di affetti) ho buttato al vento nella convinzione che fosse per me ormai tardi, che “non avevo più l'età” per fare una certa cosa. La verità è però che l'età, aldilà dei condizionamenti sociali, è tanto una questione di biologia quanto lo è di auto-percezione.
Se ci rivolgiamo al piano biologico,
l'età anagrafica si rivela per quello che è realmente: una
convenzione sociale, un numero scolorito impresso sulla nostra carta
d'identità. Ne consegue che il corpo di un cinquantenne che si cura
può essere, sul piano biologico, una macchina più efficiente del
corpo di un adolescente che ha indulto a troppi bagordi. Età
biologica ed età anagrafica: fin qui nulla di nuovo, si potrà dire.
Ma se coinvolgiamo l'aspetto della 'auto-percezione, cioè del modo
in cui “pensiamo” la nostra età, allora questioni esistenziali
si pongono, che possono portare a valorizzare la nostra esperienza di
vita o, all'opposto, a farcela buttare alle ortiche. Il punto ideale
è quello che s'incontra quando riconosciamo la realtà del tempo che
passa, pagando così il dovuto tributo all'universale stato di cose,
ma nello stesso tempo usiamo questa consapevolezza come sprone
ulteriore per fare di più e meglio, animati da un'altra
consapevolezza, ugualmente forte: quella che non è mai troppo tardi.
Se la percezione della nostra età deve
essere condizionata dalla biologia, allora è bene che ciò avvenga
nella direttrice delineata da una massima del tipo: “Non fare mai
l'errore di sentirti vecchio. Piuttosto, pensa a un tempo, diciamo
tra dieci anni, nel quale penserai a quanto eri giovane dieci anni
prima.” Con ciò si vuole dire che il “sentirsi vecchi” è un
inganno della coscienza, pesantemente condizionato dall'ambiente
sociale e dal concetto di “età anagrafica”. Ma la società, a
differenza di noi, ha bisogno, per questioni diciamo “amministrative”
(leggasi: lavoro, assistenza e pensione) di stabilire un punto o
fascia di inizio dell'età senile; l'individuo, al contrario, che
giustamente non accetta di farsi classificare come numero o “entità
anagrafica”, può e deve impedire che questo approccio costituisca
ostacolo a un'ulteriore realizzazione di sé: la vita, nella sua
ricchezza, non può ridursi ai condizionamenti di un espediente
burocratico.
Ma anche l'“età biologica” ha
elementi di pesante incertezza. Siccome, infatti, da un punto di
vista esistenziale, gran parte del concetto di “senilità” - a
differenza, per esempio, di quello di “maturità” - si rispecchia
in quello di “morte”, nel senso che la “vecchiaia” è
fatalmente percepita come percorso di avvicinamento alla morte,
perchè ci si dovrebbe sentire “vecchi”, dal momento che non si
può conoscere l'età della propria morte? Dopotutto, anche un
“vecchio” di 70 anni potrebbe rivelarsi semplicemente una persona
di “mezz'età” o semplicemente “matura”, se dovesse campare
fino a 140 anni (fatto rarissimo, ma possibile). Allo stesso modo, un
trentenne potrebbe essere già “vecchio”, se la natura ha deciso
che per lui 40 anni di vita possono bastare. Se uno non sa quanto
vivrà, non può sapere se è vecchio, maturo o giovane; e allora
perchè dovrebbe guastarsi la vita nel pensiero di essere vecchio, e
rifuggire così dalla possibilità di aprirsi a nuove e fresche
esperienze, a reinventarsi, dietro il pretesto che per la tale o tal
altra cosa “è ormai troppo tardi”? Se l'età anagrafica è un
costrutto formale impostoci dalla società, l'età biologica (e
mentale) è una menzogna che noi raccontiamo a noi stessi. E chi vive
nella menzogna, muore nel rimpianto.
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