"Giano" (1967), di R. Sommaruga |
Se c'è una cosa che odio (o meglio, che disapprovo) è l'utilizzo che si fa del concetto di “ipocrisia”. Il concetto di “ipocrisia” non è, a dispetto del suo frequente uso, qualcosa di facile da afferrare; ergo, esso viene spesso usato a sproposito. La sua difficoltà deriva dal fatto che si riferisce a un atteggiamento e non a un episodio preciso e concreto, come accade nel caso del concetto di “bugia” o “menzogna”: essendo più "aereo", la ragione fa più fatica ad "afferrarlo" (appunto).
“Ipocrisia” e “Menzogna”: la Differenza
Uno degli utilizzi impropri del
concetto di ipocrisia è quello che tende a confonderlo appunto con
il concetto di “bugia” o “menzogna”. L'ipocrisia, che è un
atteggiamento, deve pur apparire in forma concreta, deve tradursi in
parole e gesti. Ne consegue che un'ipocrita è sempre anche un
bugiardo. Ma il bugiardo non sempre è ipocrita. Ciò è
particolarmente evidente nelle menzogne che servono a uno scopo
giusto, o a non ferire una persona con parole che, pur corrispondendo
a verità, non recherebbero nessun vantaggio alla verità. Si pensi a
quando si dice a una ragazza che è bella, anche quando non lo
pensiamo. E' questa ipocrisia? No: lo sarebbe se all'affermazione
facessimo seguire un atteggiamento, espresso nella gestualità del
corteggiamento; ma stando le cose così, noi ci siamo limitati a
proferire un giudizio, ad esprimere una frase, quindi tutto rimane
nei confini della (misericordiosa) bugia. Il punto è che il dire la verità
servirebbe, in questo caso, solo a ferire la persona, senza per
questo servire la causa della verità stessa, la quale non otterrebbe
nulla dalla rivendicazione della “bruttezza” di quella ragazza.
Così come esistono occasioni in cui
mentire è non solo lecito ma imprescindibile, altrettanto esistono
forme socialmente accettabili di ipocrisia: si pensi alla “necessità”
di mostrare un viso abbattuto al funerale di uno sconosciuto.
L'"Ipocrisia" Può Essere Solo il Tentativo –
Fallito – di Essere una Persona Migliore
Un altro utilizzo improprio
del termine "ipocrisia" rivela una situazione più subdola e indecifrabile.
Ciò riporta alle intenzioni che sottendono l'ipocrisia (o ciò che
pensiamo lo sia). L'atteggiamento “ipocrita” rivela infatti, in
molti casi (e anzi, forse nella stragrande maggioranza di essi), solo il
fallimento del tentativo (o dei tentativi) di una persona di essere migliore. Si pensi
al caso di un uomo che dice alla moglie di amarla quando invece
continua, in segreto, ad andare con un'altra donna. E' chiaro che –
come abbiamo ormai chiarito - un comportamento di tal genere
configura molto di più che una semplice “menzogna”: la menzogna
sarebbe, nella fattispecie, ogni atto o parola utile a mascherare il
comportamento adulterino dell'uomo (per esempio, il fatto che ogni
volta dica che esce per una riunione di lavoro): epifenomeno e
strumento.
Ma – e qui è il punto – cosa
diremmo se l'uomo fosse intimamente lacerato, cercasse di compensare
con rapporti extra-matrimoniali vacui e insoddisfacenti il vuoto
creato da una relazione – quella con la moglie – di cui sente
ancora un forte bisogno e di cui vorrebbe riaccendere la fiamma, e a cui non può e non vuole mettere la parola "fine"? Sarebbe questa effettivamente “ipocrisia”?
Nel senso stretto del termine sì: l'uomo simula un sentimento che
non prova; ma, rispetto alle intenzioni, no: l'uomo ha dei problemi,
la relazione non funziona, e l'uomo si sforza di darle un senso
inventandosi un sentimento nei confronti della consorte e rigettando l'evidenza che esso è in realtà estinto da tempo: egli inganna
prima se stesso che la moglie. E' chiaro che definire un
atteggiamento come questo “ipocrita” significa mettere le lenti
della zitella da fotoromanzo e non quelle dello psicologo, dell'uomo
di mondo o della persona capace di guardare più a fondo negli
atteggiamenti e nella complessità della natura umana. Diverso da
questi casi sarebbe naturalmente quello di chi invece, per esempio, si fosse
sposato per interesse e non volesse rinunciare a una vita sessuale e
sentimentale soddisfacente al di fuori di un matrimonio che riveste
per lui un semplice significato economico: in questo caso la
simulazione del sentimento sarebbe funzionale a un'intenzionalità
meschina, a un inganno perpetrato a esclusivo danno della consorte. Questo caso - et similia - restituisce il vero significato della parola, contenuto nella sua etimologia: dal greco Ypòkrisis (= "rappresentazione", "il porgere di un attore").
Ciò che si è potuto dire per il
marito “tormentato” si può dire per una certa figura di playboy
(o forse per tutti i playboy): il suo sforzo di approdare a una
relazione stabile potrebbe essere scambiato per
“ipocrisia” ogni qual volta egli cada nella tentazione di un
nuovo e diverso rapporto dopo aver giurato amore eterno. A dispetto delle apparenze e della fama, quella del playboy è una vita miserabile.
Conclusione
Quella che troppo spesso si chiama
“ipocrisia” rappresenta solo il fallimento del tentativo da parte
di una persona di migliorarsi, di diventare qualcosa di diverso e di
meglio. E' esercizio, sforzo – ma anche "ricerca" (si veda lo “Streben” del Faust) – di miglioramento: e dopotutto, come si fa a diventare qualcosa se
non ci si esercita, se non lo si "interpreta" in quel confusionario teatro che chiamiamo "esistenza", nel quale ognuno è alla sempiterna ricerca di se stesso?
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