C’è un termine che in America spopola, ed è quello di “community” (comunità). È un termine che fortunatamente non sembra aver fatto la stessa presa qui da noi. È anche un termine che sembra più usato dalla sinistra americana, ma dal cui utilizzo la destra non è esente. I “progressiti” lo adoperano quasi esclusivamente per indicare le minoranze etniche e sessuali, che nel complesso costituiscono il loro bacino elettorale di riferimento. Essi parlano quindi di “black community” (comunità nera), “lgbtq community” (comunità lgbtq), “latin community” ecc. La destra invece sembra usare il termine “community” per indicare gli abitanti delle varie zone rurali dell’America “deep”.
L’uso particolare
e corpuscolare del termine “community” dovrebbe essere bandito. Esiste solo una
“comunità”: quella nazionale, che include tutti. E non si dice ciò per
“nazionalismo”, bensì per questioni di basilare gestione della cosa pubblica. Sembra lapalissiano, ma tanto più larga è l’ottica delle politiche, tanto più queste guarderanno all’interesse
comune; tanto più ristretta l’ottica, tanto più si tendrà a favorire un
gruppo a scapito degli altri. È in ragione di questo che quando la sinistra
parla, in merito alle politiche rivolte a questo o quel gruppo minoritario, di
“inclusività”, lo fa – come in ogni caso in cui utilizzi termini “buonisti” e
apparentemente inattaccabili – intendendo l’esatto contrario. Una politica che,
per esempio, intenda “proteggere” gli immigrati clandestini criminalizzando la
critica della politica migratoria, mina il diritto di parola tanto quanto la
sicurezza sociale e la longevità e sostenibilità economica di un paese. Tali
politiche non sono “inclusive” ma, al contrario, “esclusive”: fanno acquisire a
uno o più gruppi dei privilegi a scapito dell’esclusione di tutti gli altri
dalla fruizione di diritti acquisiti al prezzo del sangue versato nei secoli
dai nostri patrioti. Se la scelta è tra il fare opposizione in un paese unito e prospero e il governare sulle macerie di una società nuclearizzata, per la sinistra il dilemma non è mai esistito. Il conflitto sociale è la sua ragione di vita, ciò da cui trae la sua linfa vitale: se non esiste, va creato. "Ogni crisi è un'opportunità", e ogni pretesto è buono.
Che il termine “community” sia usato in maniera preponderante dalla sinistra è perfettamente coerente con il proposito di dividere la società in gruppi antagonisti, perché una società divisa si controlla meglio. Inoltre, una società unita che si concepisca come un’unica comunità non potrebbe altro che identificarsi con la nazione e con il suo bene. Ma la sinistra, che abbraccia oggi il globalismo come un tempo abbracciava l’internazionalismo, non ha e non ha mai avuto a cuore l’interesse della nazione in cui opera. La sinistra americana odia l’America allo stesso modo (e anzi forse un po’ di più) di quanto la sinistra italiana odi l’Italia, la sinistra tedesca odi la Germania, e così via.
Se non si vuole contribuire al gioco della sinistra, occorre non adottare il suo linguaggio. Perché l’ideologia – e specialmente un’ideologia virulenta come quella “progressista” - sostituisce la realtà con il linguaggio, per cui adottare il linguaggio dell’ideologia significa contribuire alla creazione della nuova realtà che l’ideologia vuole costruire. Se si continua a usare la parola “comunità”, non ci si meravigli se un giorno, svegliandosi, ci si accorge di vivere in un nuovo comunismo.
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